Nel romanzo “David Copperfield” il grande Charles Dickens mette in bocca a Mr Micawber, personaggio finanziariamente tormentato, una frase famosa e di conseguenza spesso citata: «Entrate annuali venti sterline, uscite annuali diciannove sterline, diciannove scellini e sei pence; risultato: felicità. Entrate annuali venti sterline, uscite annuali venti sterline e sei pence; risultato: infelicità». Come dire: dalla gestione oculata delle proprie risorse dipende molto del nostro benessere e una variazione di cifre anche modesta può rovesciare la bilancia dalla parte più sfavorevole.
Micawber non era un tipo da prendere a esempio come risparmiatore e, nonostante la fedeltà della moglie («Non abbandonerò mai Mr Micawber!» è una delle frasi ricorrenti più buffe del libro), aveva tanti creditori e pochi amici. Nonostante le sue pessime abitudini, era però arrivato a concepire, se non ad applicare, una solida forma di saggezza pecuniaria: mai spendere più di quanto si possiede.
Non si può dire che l’amministrazione pubblica del nostro Paese abbia raggiunto la stessa sapienza, almeno teorica, della creatura di Dickens. Ultimo esempio in ordine cronologico lo straordinario pasticcio sulle aliquote Imu che, a gennaio, costringerà molti contribuenti a sganciare una sorta di “conguaglio” sulla prima casa, quella che, se non ricordiamo male, parecchi politici avevano giurato dovesse rimanere esente, pena un fulmine che, dal cielo, scendesse a incenerire loro, i loro figli, i nipoti e, più preziosi ancora, i rimborsi per la manicure.
Compiuta un’illusoria parabola che avrebbe dovuto condurla nei pressi della ragionevolezza e della giustizia, l’imposizione fiscale è tornata a manifestarsi per quella che è: un pretesto dell’autorità per coprire arbitrariamente l’ avidità e l’incapacità che le sono congenite. Ma di denunciare tutto questo non sarebbe più capace neppure Dickens.
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