Spero vivamente che il silenzio di Bob Dylan sul premio Nobel continui ancora a lungo. Con esso, il grande cantautore americano potrebbe aver scritto la sua canzone più bella. O la poesia più intensa. Oppure, ancora, il brano di prosa più illuminante.
Dico sul serio: facendo intorno a sé il deserto dell'espressione, Dylan ha messo in risalto, per contrasto, le parole del resto del mondo. Che geniale operazione, se ci pensate! Dylan offre se stesso come un libro lasciato in bianco: a quel punto a scrivere saranno gli altri, tutto intorno, e ognuno - compreso, come si vede, il tsottoscritto - avrà la sua opinione da esprimere, la sua battuta da consegnare allo spirito collettivo, la sua cattiveria da espellere, la sua dichiarazione di fede da elevare.
Ora Dylan meriterebbe anche un premio per le arti figurative, perché il suo silenzio è una pennellata invisibile - ma decisiva - apposta sulla grande tela globale. Tutti parlano, lui tace. L'Accademia svedese lo celebra per le sue parole, e lui di parole non ne concede più. Mi correggo: non è una pennellata invisibile; è invece un tocco di bianco, l'area di luce aggiunta dal pittore a una pupilla per renderla viva, a una fronte per renderla tridimensionale, alla guancia di una mela per renderla appetibile. Nient'altro che bianco, bianco purissimo, ovvero un'area che reclama a sé il solo diritto della neutralità. Costringe però tutto ciò che sta intorno a schierarsi, a rivelare una personalità (se mai possibile), un carattere, una grandezza o una meschinità.
Infine, Dylan ha tutto il diritto di starsene in silenzio, con buona pace perfino di quel membro dell'Accademia che lo ha definito "arrogante". Lui le parole da Nobel le ha già create, adesso tocca a noi trovarne di decenti, se non proprio di umane e vere. Facendosi da parte, Bob ce ne offre l'occasione, ci regala lo spazio per scrivere e l'ossigeno per parlare. Starebbe a noi approfittarne per il meglio. Così a occhio, direi che non abbiamo incominciato proprio alla grande.
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