Il titolo di un articolo online ha attirato, ieri, la mia attenzione. Un signore - presumibilmente un agricoltore, vista la foto che lo ritraeva in mezzo a un campo - dichiarava a tutta pagina, o per meglio dire a tutta schermata: «Ho realizzato il sogno che mio padre non ha mai sognato».
Possiamo supporre che il papà del signore sia passato a miglior vita e che questa sia la ragione per cui egli dichiari a una pubblicazione di aver realizzato il suo «sogno mai sognato». In caso contrario, avrebbe potuto annunciarlo direttamente al genitore stesso, andando incontro, però, a una probabile delusione. Perché mai, infatti, qualcuno dovrebbe sentirsi fiero, o perfino interessato, nell’apprendere che il proprio figlio ha realizzato un sogno che lui medesimo non si è mai sognato di sognare? Un sogno estraneo, per così dire, uno possibile tra infiniti sogni mai sognati. Al massimo della benevolenza, il genitore avrebbe potuto concedere un’alzata di spalle: «Contento tu, figliolo...»
Il titolista intendeva forse dire che il signore intervistato aveva realizzato un sogno coltivato (nel campo inquadrato dalla fotografia?) da suo padre, o addirittura un sogno ancora più grande, di enorme ambizione, che il padre stesso neppure aveva osato sognare. Questa interpretazione restituisce senso all’articolo e dunque ho deciso di prenderla per buona: non mi sogno, infatti, di sognarmi di investigare oltre circa le intenzioni del titolista.
Mi accontento di prendere spunto da questo episodio, altrimenti del tutto insignificante, per constatare come il nostro raccontare e, soprattutto, il nostro commentare sul Web sia viziato, oltre che da malafede, anche dalla sciatteria di una lingua che non è più né parlata né scritta, e pertanto non poggia su alcuna convenzione espressiva.
La parola, lo sappiamo, ha meno vincoli della scrittura, e tuttavia raggiunge il suo scopo attraverso l’arricchimento fornito dal colore vocale, dalle sottolineature portate dal contrarsi dei lineamenti e dall’impiego delle convenzioni gestuali. La scrittura ha invece regole ben definite di grammatica e sintassi, perfino di stile. Quella che (parliamo? scriviamo?) usiamo in Rete è un’altra cosa. Si direbbe una sorta di magma che, all’apparenza, vorrebbe avere la spontaneità della voce e invece ricade sulla struttura formale della scrittura, alla quale però non sa adattarsi e, anzi, a paragone di essa, tra virgole messe a caso, punti mancanti ed eccesso di esclamativi, finisce per rendersi ridicola. Ecco perché ha sempre bisogno di farsi precedere e seguire da un codazzo di emoji: minuscoli simboli che tentano di riempire enormi vuoti espressivi.
Con questa “lingua”, ormai impiegata anche da ministri e giornalisti, esperti e opinionisti, pretenderemmo di confrontarci su problemi quali l’immigrazione, la globalizzazione, il futuro dell’Europa e l’immortalità dell’anima. È già tanto, dico io, se riusciamo a mandarci affanculo. D’altra parte, quello di una lingua nuova, adatta al Web quanto alla ragione e al buon gusto, è un sogno che, francamente, non credo di poter sognare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA