La scorsa settimana, concludevo queste noterelle con le seguenti parole: «L’informazione non è oggi separabile dalla faziosità e, anzi, tra le due cose c’è un reciproco alimentarsi e confermarsi. L’informazione ha infine compiuto una svolta a 180 gradi: più sappiamo, meno ragioniamo».
Questo altrimenti disgustoso esercizio di autocitazione ha uno scopo che vorrebbe riscattarlo: il mortale abbraccio tra l’informazione (leggi anche: giornalismo) e la faziosità è solo uno dei problemi che sta conducendo i tradizionali mass media a un declino ingiusto e precoce e dunque degno di attenzione.
Un altro problema lo ha evidenziato, in un recente intervento online, la giornalista Tina Brown che, rispetto al sottoscritto, vanta ben modeste credenziali: è stata direttrice di testate semisconosciute come Tatler, Vanity Fair e The New Yorker.
A fare il deserto intorno all’informazione “seria”, aggettivo che in questo caso e forse in questo soltanto si intende sinonimo di “apprezzabile per qualità” - è la circostanza, disdicevole ma innegabile, che gli inserzionisti pubblicitari non desiderano piazzare i loro annunci accanto ad articoli che si occupino di guerre, terrorismo, problemi sociali, difficoltà economiche, carestie in angoli remoti del globo (remoti, si intende, dal punto di vista di un Occidente che ancora tende a collocarsi al centro dell’universo).
Non che gli inserzionisti cerchino le “belle notizie”, tutt’altro: la cronaca particolarmente efferata - infanticidi, delitti a sfondo sessuale, polemiche legate alla politica “di pancia” - troverà sempre dei finanziatori: è l’approfondimento ragionato a far scappare la pubblicità. Ciò, ormai, non avviene neppure per scelta: sono gli algoritmi a decidere dove sistemare le inserzioni e gli algoritmi vanno dritto al sodo, ovvero, come scrive Tina Brown, «al più basso denominatore comune»: la notizia “sensazionale”, torbida e polarizzante.
Il sonno della ragione, in altri termini, genera clic e i clic generano profitto: non si vede perché qualcuno dovrebbe finanziare un serioso reportage dal Chad quando può recuperare rapidamente il suo investimento accostandosi a un editoriale incentrato sul seno di Kim Kardashian o sulle escursioni sessuali di Fabrizio Corona.
A uscirne a pezzi, si capisce, è il giornalismo vero, quello che dovrebbe fare da sentinella. Fatta eccezione per quelle che lavorano al New York Times o al Washington Post, colossi spinti da grandi investimenti globali, non c’è rancio per le povere sentinelle del giornalismo. Per quanto mi riguarda, spero soltanto che abbiano il coraggio e la dignità di morire di fame prima di attaccarsi alle tette di Kim Kardashian.
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