Il suo cuore

Avendo trascorso, in gioventù, diverse giornate sui prati di svariati autodromi europei, circondato soprattutto da tifosi tedeschi che sudavano birra e ingurgitavano immondi salsicciotti turgidi di colesterolo, ho maturato il diritto a dire la mia sulla questione Ferrari-Marchionne-Montezemolo.

Non che mi importi molto di nessuna di queste tre entità - o “marchi”, come anche certe persone fisiche sono ormai identificabili -, ma poiché quelle lunghe giornate, felici ma anche massacranti, hanno lasciato in me un segno, mi sembra giusto intervenire. Non pretendo di parlare dell’attualità né tantomeno di incidervi in qualche modo: dico la mia soltanto in nome del passato.

Con tutto quello che hanno da fare, i signori di cui sopra, grandi esperti di automobili e di corse, potrebbero aver dimenticato in che cosa consisteva l’umore di un appassionato che, a bordo pista, attendeva il passaggio di una Ferrari. I piloti di allora - Niki Lauda e Clay Regazzoni, Carlos Reutemann e Gilles Villeneuve, Didier Pironi e Michele Alboreto -, nonostante il fascino personale, le avventure, le traversie, le polemiche e le imprese, erano soltanto fantini di una leggenda. Quella della Ferrari, appunto. Il frastuono disciplinato del 12 cilindri, un vero urlo di battaglia, annunciava l’arrivo di un lampo rosso: un istante e già rimbombava laggiù tra gli alberi, dove il pilota scalava le marce prima di impostare la curva.

Il brivido che distingueva quel passaggio e la gioia che destava, non erano dovuti solo a tifo cieco o a speranza di vittoria quanto alla certezza che tale prodigio era il prodotto dell’ostinazione maniacale di un uomo: Enzo Ferrari. Il fascino del Cavallino era un derivato dell’individualismo e dell’iniziativa umana. La Ferrari di oggi - marchio, holding, partecipata o status symbol che sia - non può avere lo stesso appeal. Passa sotto i nostri occhi e non fa battere altrettanto forte il cuore: forse perché non ne ha uno suo.

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