Ognuno di noi, credo, ha avuto ieri il suo personale, improvviso risveglio. C’è chi ha trovato la primavera in un riflesso della finestra, dove il blu del cielo ha riversato, finalmente senza risparmio, una luce ricca e limpida insieme. Altri, ne sono certo, si sono fatti sorprendere da un singolo aroma inaspettato: magari un profumo di pane fresco, tanto più stuzzicante perché spinto dalle folate di un vento tiepido, fatto apposta per mettere appetito. Qualcuno, è probabile, l’avrà avvertita in un suono lontano: un vicino cercava di avviare la moto sottratta al letargo del garage, un bambino faceva rimbalzare la palla sul balcone.
Personalmente, ho avuto l’impressione di trovarmi in un aeroporto. Ho pensato che intorno a me non ci fosse il normale viavai delle strade e delle piazze, dei comuni passanti del sabato, reduci dal supermercato o da un caffè in centro, ma quello dei viaggiatori intrappolati nel limbo artificiale di uno scalo, e me lo faceva pensare nient’altro che l’incertezza degli indumenti.
Ho incontrato persone che sembravano appena sbarcate da Helsinki. Ancora rintanati nell’armatura del piumino, l’aria sospettosa di chi teme una trappola, resistevano alla tentazione di sfilarsi un guanto per timore che, all’improvviso, il clima si rivoltasse contro di loro, richiamando in servizio tutte le armate dell’inverno in modo da congelarli lì, sul posto, per dispetto e ostinazione. Ma c’era anche chi, ostentando magliette, pantaloni corti e perfino ciabatte da spiaggia, annunciava il suo arrivo da Thaiti o dal Sud-Est asiatico. Impaziente, determinato e addirittura già cotto dal sole, emanava un filo di indignazione e reclamava, la fronte avvolta in una bandana come in una bandiera, che dopo tanto freddo si passasse direttamente dalla primavera all’estate.
Agli uni e agli altri, fratelli viaggiatori del clima, mando un saluto sincero. E tante congratulazioni: quelle, commosse, che si scambiano i sopravvissuti a un inverno orribile.
Personalmente, ho avuto l’impressione di trovarmi in un aeroporto. Ho pensato che intorno a me non ci fosse il normale viavai delle strade e delle piazze, dei comuni passanti del sabato, reduci dal supermercato o da un caffè in centro, ma quello dei viaggiatori intrappolati nel limbo artificiale di uno scalo, e me lo faceva pensare nient’altro che l’incertezza degli indumenti.
Ho incontrato persone che sembravano appena sbarcate da Helsinki. Ancora rintanati nell’armatura del piumino, l’aria sospettosa di chi teme una trappola, resistevano alla tentazione di sfilarsi un guanto per timore che, all’improvviso, il clima si rivoltasse contro di loro, richiamando in servizio tutte le armate dell’inverno in modo da congelarli lì, sul posto, per dispetto e ostinazione. Ma c’era anche chi, ostentando magliette, pantaloni corti e perfino ciabatte da spiaggia, annunciava il suo arrivo da Thaiti o dal Sud-Est asiatico. Impaziente, determinato e addirittura già cotto dal sole, emanava un filo di indignazione e reclamava, la fronte avvolta in una bandana come in una bandiera, che dopo tanto freddo si passasse direttamente dalla primavera all’estate.
Agli uni e agli altri, fratelli viaggiatori del clima, mando un saluto sincero. E tante congratulazioni: quelle, commosse, che si scambiano i sopravvissuti a un inverno orribile.
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