La televisione è diventata un incubo. Non è questo un commento di carattere generale sulla qualità dei palinsesti. Sono i programmi che, con orgoglio, applicano a se stessi la definizione “da incubo”.
Ci sono cucine da incubo, bar da incubo, hotel da incubo, giardini da incubo, case da incubo e perfino coppie da incubo. La televisione cerca “incubi” ovunque: allo scopo di trasformarli in sogni. È difficile non farsi catturare da questi programmi che fanno leva sul meccanismo espiazione-redenzione.
Prendiamo ad esempio lo show “Cucine da incubo”, sia nella versione italiana sia in quella originale americana. Uno chef stellato - questa la premessa - viene convocato dai gestori di un ristorante che sta andando a rotoli: «Aiutaci!» I gestori medesimi non riescono a individuare il «problema specifico», ovvero a capire «come mai» il ristorante non guadagna soldi a palate. Lo chef, dall’alto della sua «professionalità», chiarisce l’arcano: i clienti non gradiscono gli scarafaggi nel pane, la pasta scotta e le verdure marce. Valli a capire.
Di fronte a queste manchevolezze, lo chef procede a un tremendo cazziatone: umilia i gestori, i cuochi e i camerieri provocando, non di rado, una profusione di lacrime. Fatta tabula rasa, provvede a ricostruire sulle macerie psicologiche. Spiega che è importante «fare squadra» e che il segreto della buona ristorazione consiste - ma non ditelo in giro - nel non avvelenare gli avventori. Dopo di che il locale viene ristrutturato - in una notte! - e si presenta alla serata di riapertura. C’è ancora qualche problemino - un cameriere si ostina a servire un topo morto - ma il pronto intervento dello chef raddrizza la situazione: la serata è un successo, il ristorante rilanciato, i gestori felici e noi spettatori in delirio. Nulla è potente come lo spettacolo della purificazione, della liberazione e del riscatto. Basterebbe a questo punto intitolare le nostre vite “Italia da incubo” e sperare nell’arrivo di un redentore. Ma, in fondo, è quello che facciamo da sempre.
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