Come si dice «non sono un ladro» in piemontese? E in emilano? E in lombardo? Come si dice «rimborso elettorale», «fattura falsa» e «settimana bianca pagata»?
L’unico sforzo che ci rimane è quello di declinare titoli di reato e definizioni di malaffare nei mille dialetti d’Italia, nelle sue infinite parlate, nella ricca tavolozza di accenti che, disposta come un arcobaleno da Nord a Sud, ne fa uno dei Paesi più linguisticamente mutevoli del mondo.
Una volta, salendo o scendendo la scala dei paralleli cambiava tutto, non solo il suono della lingua: abitudini alimentari, gusti enologici, principi morali, vedute filosofiche, caratteri poetici e perfino la matematica, regno della logica, viaggiando per la Penisola finiva per concedere qualcosa al folklore locale.
Mi ricordo, alle elementari, di un bambino il quale, venuto da "fuori", ebbe a spiegarmi che "da loro" si usava per le divisioni un segno diverso da quello che usavamo "noi". Poco ci mancò che ne rimanessi scandalizzato.
Oggi, di quell’Italia, si dice che era "provinciale". Io mi limitavo a notare che, con quelli che arrivavano da altre parti del Paese, la gente, pur borbottando alle loro spalle, finiva per trattarli con un eccesso di cortesia. In realtà, molto sottilmente, la palese esuberanza delle buone maniere rimarcava una spietata mancanza di confidenza cosa, questa, destinata a convogliare un messaggio: «Non siete dei nostri».
Non credo accada più: la gente si muove sopra e sotto, a destra e a sinistra, e non c’è pericolo che venga trattata con troppa cortesia. La comunione penale delle Regioni, che da Nord a Sud risuonano delle stesse ipotesi di reato, ha infine mischiato del tutto la tavolozza, creando la definitiva sfumatura di grigio. Di questa Italia nessuno più dice che è "provinciale". Resta da capire che cosa dirne.
L’unico sforzo che ci rimane è quello di declinare titoli di reato e definizioni di malaffare nei mille dialetti d’Italia, nelle sue infinite parlate, nella ricca tavolozza di accenti che, disposta come un arcobaleno da Nord a Sud, ne fa uno dei Paesi più linguisticamente mutevoli del mondo.
Una volta, salendo o scendendo la scala dei paralleli cambiava tutto, non solo il suono della lingua: abitudini alimentari, gusti enologici, principi morali, vedute filosofiche, caratteri poetici e perfino la matematica, regno della logica, viaggiando per la Penisola finiva per concedere qualcosa al folklore locale.
Mi ricordo, alle elementari, di un bambino il quale, venuto da "fuori", ebbe a spiegarmi che "da loro" si usava per le divisioni un segno diverso da quello che usavamo "noi". Poco ci mancò che ne rimanessi scandalizzato.
Oggi, di quell’Italia, si dice che era "provinciale". Io mi limitavo a notare che, con quelli che arrivavano da altre parti del Paese, la gente, pur borbottando alle loro spalle, finiva per trattarli con un eccesso di cortesia. In realtà, molto sottilmente, la palese esuberanza delle buone maniere rimarcava una spietata mancanza di confidenza cosa, questa, destinata a convogliare un messaggio: «Non siete dei nostri».
Non credo accada più: la gente si muove sopra e sotto, a destra e a sinistra, e non c’è pericolo che venga trattata con troppa cortesia. La comunione penale delle Regioni, che da Nord a Sud risuonano delle stesse ipotesi di reato, ha infine mischiato del tutto la tavolozza, creando la definitiva sfumatura di grigio. Di questa Italia nessuno più dice che è "provinciale". Resta da capire che cosa dirne.
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