Vorrei congratularmi con il professor Russell T. Hurlburt anche se, disgraziatamente, non lo conosco. Conosco però i risultati di una sua ricerca, e devo riconoscergli che come professore di psicologia all’Università del Nevada, è un professore di psicologia all’Università del Nevada con due attributi così.
Russell - spero mi conceda la confidenza di chiamarlo Russell - ha infatti preso di petto un argomento molto interessante ma per sua natura sfuggente: la voce interiore che accompagna ognuno di noi quasi dalla nascita e, a ogni ora di ogni giorno, ci suggerisce svariate riflessioni sulla vita, sulla morte, sul formaggio con i buchi e sugli svincoli che si intravedono sotto la divisa della hostess di EasyJet.
Per studiare questa presenza chiacchierina, il buon Rus (ormai la confidenza me la sono presa) ha dovuto superare la difficoltà più ovvia: chiedere a qualcuno di raccontarci la sua voce interiore è infatti il modo migliore per distrarlo da essa..
Russy ha aggirato il problema dotando i soggetti sotto esame di un apparecchietto che, a caso, si metteva a ronzare più volte al giorno: ogni volta, i soggetti erano tenuti ad annotare il pensiero interiore nel quale erano immersi al momento del ronzio. I risultati sono complessi e certamente affascinanti: la voce interiore assomiglia quasi sempre a quella reale della persona cui appartiene (ogni tanto se ne presenta un’altra, conosciuta scientificamente come “moglie”) ed è in grado di articolarsi in inflessioni e stati emotivi.
Una preziosa indagine che certamente tornerà utile anche, devo dire, sul rapporto tra noi e la nostra voce interiore sovviene un passo dell’“Ulisse” di Joyce. Al cimitero per il funerale dell’amico Paddy Dignam, Leopold Bloom sente irrompere nella mente una canzone. Subito si scuote e, con la stessa voce, rimprovera se stesso, ovvero questo misterioso clandestino senza il quale non sarebbe nulla: «Mio Dio, non posso cantare qui!»
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