La parola “fallimento” è ormai tabù. È una di quelle parole politicamente scorrette che si usano solo nelle fiction televisive, insieme a basette e macchine d’epoca, per far capire che l’azione si svolge nel passato. Nessuno, oggi, si dice “fallito” e a nessuno viene apertamente applicata questa etichetta. Nondimeno qualcuno, ogni giorno, fallisce e pertanto deve vedersela con la sensazione, affliggente, del fallimento.
Personalmente conosco bene questa sensazione: la provo ogni giorno, subito dopo aver scritto questa rubrica. Posso pertanto confermare la descrizione che ne danno gli esperti: il fallimento tende rapidamente a espandersi dal particolare al generale. Sarebbe a dire che, avendo fallito in una specifica impresa, l’individuo finisce per considerarsi un fallimento in tutto, a travolgere sotto un’ondata di scoramento ogni aspetto della sua vita e non soltanto quello nel quale, magari per sventura, non ha potuto provarsi all’altezza.
Ho letto di recente i suggerimenti con i quali uno psicologo garantiva a chiunque una via di fuga da questa trappola. Onestamente, ci ho capito poco o nulla: «Spostiamoci dall’io che non è stato all’io che è stato: questo io avrà fallito in qualcosa ma sarà stato vincente in altre attività». E ancora: «Non concentriamo i nostri pensieri su ciò che dobbiamo conquistare oggi; piuttosto, accogliamo la giornata con uno spirito di curiosità». Ammesso di aver afferrato i concetti, non mi sembra facilissimo metterli in pratica.
In mancanza di una tecnica, davanti al fallimento a me capita di ricorrere a un pensiero. Questo: costringendoci a tanti impegni, la vita esige da noi uno sguardo rivolto a ciò che ancora non abbiamo fatto e a ciò che ancora non abbiamo ottenuto. Pratico, ma ingiusto. Qualche volta dovrebbe invece essere lecito guardarsi indietro e ammirare tutta la strada che abbiamo percorso, i ponti che abbiamo attraversato, i fiumi che abbiamo guadato. Seduti in pace a respirare sulla cima di noi stessi.
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