La coda

La coda

C'è è qualcosa in questa Imu che mi piace poco. E so anche che cosa: tutto. Non mi piace il fatto che sia una tassa - per quanto le tasse vadano pagate con scrupolo -, non mi piace che sia una tassa sulla casa, non mi piace che, come per il risultato di Italia-Inghilterra in "Fantozzi", si rumoreggi di aliquote da usura e non mi piace, infine, il fatto che mi costringerà a fare la coda, quest’anno, per tre volte.

Così il governo ha lasciato trapelare tra un digrignar di zanne e l’altro: tre rate, tre pagamenti. Quindi, tre code. Capisco bene che dividere la mazzata eviterà a molti di non dover impegnare l’apparecchio acustico della nonna, ma io, egoista, già fremo d’impazienza all’idea di far tre volte la coda. Non tanto per il tempo perso, quanto perché detesto quel fenomeno per cui, una volta in coda, si diventa attori di una messinscena oltremodo noiosa, che nessuno vuole recitare ma che, tutti, per qualche oscura ragione, non riescono a impedirsi di sostenere.

A parte il primo della fila, quello che è già allo sportello, e che odio di default, la gente con cui condivido la coda di solito mi è simpatica. Sono spesso persone dotate di spirito, certamente di esperienza. Con loro si potrebbe parlare di tutto: cinema, gastronomia, lancio del giavellotto, tecniche di estrazione del berillio. Invece, a certo punto, come posseduto da un incantesimo, qualcuno della fila, non più padrone di se stesso, apre la bocca e dice: «Se ne va tutta la mattina per pagare le tasse». Un secondo, prigioniero del medesimo incanto, replica: «Con tutta la gente che hanno a scaldare le sedie, guarda te se devono aprire un solo sportello». Un terzo, lo sguardo fisso di uno zombie, aggiunge: «A prendere soldi ti fanno sempre fretta. Quando devono darli, aspetta e spera». E io, senza volerlo, cercando di trattenermi, lottando contro me stesso, ma infine cedendo, rovinando addirittura, mi abbandono alla inevitabile conclusione: «Almeno sapessimo dove vanno a finire, tutti questi soldi...».

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