La crociera 2

Nelle prime ore del mattino ripartimmo dall’Isola di Man. Schettino, di ottimo umore, volle grattugiare con la fiancata della nave tutte le scogliere di Dover. Al nostromo, che gli faceva notare come, in seguito alla manovra, parte del Kent fosse franato nel mare, il capitano replicò con il suo incoraggiante mantra: «Vabbuò».

Sul ponte l’aria rinfrescava. Eravamo diretti a Nord, verso la Norvegia dove, ci venne assicurato, avremmo potuto assistere a un’attività in voga in quella stagione. Ci volle del buono per arrivare, perché Schettino si impuntò nel voler cozzare contro tutti i fiordi, uno dopo l’altro, ma infine potemmo assistere a una battuta di caccia al giovane socialdemocratico, sport molto amato da quelle parti. Soddisfatti, voltammo la prua in direzione della prossima meta: l’Islanda.

Quale non fu la nostra sorpresa quando, nel punto indicato dalle mappe, non trovammo affatto l’isola del fuoco e del ghiaccio ma soltanto mare aperto. Schettino, che aveva programmato un approdo spettacolarmente disastroso, era al colmo della frustrazione: «Non vabbuò!» urlava, «Non vabbuò per niente!» Per rifarsi speronò un peschereccio scozzese. Accolto a bordo l’equipaggio, ci informammo su che fine avesse fatto l’Islanda. «Non abita più qui» spiegarono i marinai scozzesi: «Si è trasferita da quando deve tutti quei soldi alle banche». E dove è andata? «Nessuno lo sa. Forse in America». Il volto si Schettino si illuminò: «Equipaggio ai posti» comandava: «Facciamo rotta sull’America». Partimmo avanti tutta: contavamo di schiantarci nel porto di New York nel giro di cinque giorni.

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