So che lo spettacolo, per così dire, va in scena anche in diverse città italiane ma nella metropoli asiatica in cui, al momento, ho l'occasione di trascorrere qualche giorno la faccenda assume una dimensione imponente. Trattasi della domenica delle domestiche filippine le quali, libere dal lavoro, sciamano all'aperto per concedersi qualche ora di svago e, soprattutto, per riallacciare i fili tra loro: quattro chiacchiere tra connazionali, se volete.
Solo che qui, all'ombra dei grattacieli, le chiacchiere si moltiplicano: quattro, sedici, duecentocinquantasei, sessantacinquemilacinquecentotrentasei, quattromiliardiduecentonovantaquattromilioni e il resto che avanza. In una città di sette milioni di abitanti costruita su un fazzoletto di terra, le donne filippine sono tante e occupano tanto spazio. Non che lo invadano: si radunano ai margini di tutto ciò che si può ragionevolmente ritenere pubblico: un sovrappasso pedonale, uno spiazzo, un parco, un passaggio sotterraneo. Parlano tanto ma non urlano, ridono ma non strepitano, consumano abbondanti picnic ma non sporcano, suonano la loro musica pop ma non assordano e se dici loro "Gigi D'Alessio" replicano con un paradisiaco "I don't understand".
Soprattutto, viste tutte insieme, danno un'idea fisica, sterminata, del lavoro che le donne fanno ogni giorno, non solo qui, ma in ogni città del mondo. Lavoro che non è riconosciuto quasi per niente, che è dato per scontato e che, quando è fatto bene, viene premiato ignorandolo e quando è fatto appena con un poco di approssimazione viene duramente censurato. Guardando così tante signore felici di una domenica sulla panchina o su un tappetino disteso sul cemento, vien da pensare alle donne che stanno inseguendo altissime posizioni manageriali e la presidenza degli Stati Uniti. Quando la scalata sarà completata, sarebbe bello se guardassero giù per rivolgere un saluto a queste dignitosissime rappresentanti del loro sesso che, la domenica, celebrano in strada la più bella festa della donna.
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