La Finale

La Finale

Da non-interista, dovrei forse vivere la Grande Attesa per la Finale con i sentimenti del guastatore. In realtà, a parte le battute alla macchinetta per il caffè, il meccanismo del "gufaggio" non mi attrae troppo, anzi mi mette a disagio. Non tanto per riguardo nei confronti degli interisti, quanto in ossequio al vecchio detto «non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te».
La Grande Attesa, dunque, è per me soprattutto la Grande Attesa degli altri: un fenomeno da osservare e, se possibile, comprendere. Tanto più che, esaminando ansie, aspettative, tremori, gioie e superstizioni, si comprende finalmente il motivo per cui la partita decisiva si chiama «Finale». Non certo perché, come verrebbe da pensare, si tratta dell’ultima partita, e quindi quella "finale" del torneo. Niente affatto: si chiama Finale perché, per i tifosi, rappresenta un limite spazio-temporale oltre il quale una continuazione della vita non è al momento concepibile.
Bisognerebbe, a questo punto, scomodare un astrofisico per introdurre nel ragionamento concetti come «antimateria» e «buchi neri». Io mi limiterò a dire che, per chi spera nella Finale, essa rappresenta un punto di svolta, un drammatico orizzonte dei sentimenti: sulla Finale si ergono le colonne d’Ercole dell’esistenza. Se pensate sia cosa brutta, vi sbagliate: la vita, a volte, è bella non perché continua, ma perché, come in una vertigine del cuore, dà cenno di svanire prima di riprendere a palpitare.

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