La fine della scuola

Una sciocca questione anagrafica vorrebbe che, oggi, io e l’ultimo giorno di scuola transitassimo l’uno accanto all’altro senza incrociarci e, soprattutto, senza scambiarci uno sguardo.

Che cosa mai potrebbe avere a che fare con l’ultimo giorno di scuola uno come me, che a scuola non c’era - non con la testa - neppure quando a scuola ci andava? Niente, direte voi. Aspettate un momento, dico io, perché qui più che di scuola si parla di quel frammento della medesima già proiettato in una languida promessa di ozio, di giorni liberi da scartare come caramelle, di pomeriggi da trascorrere come galleggiando nell’acqua di una piscina senza tempo. E laddove si parla tempo buttato via, ecco che si impone la mia autorità di - notare “le mot juste” - perditempo assoluto.

Credo che per molti dei “giovani d’oggi” - da circa quarant’anni aspetto il momento buono per usare questa espressione - la fine della scuola coinciderà con il ricordo di feste e goliardia. Ma forse, come è accaduto per me, resterà, ancor più resistente al tempo, una sensazione particolare. Quella che la fine della scuola sia, più che un evento programmato dal calendario, una specie di resa della scuola stessa, incapace di continuare la sua recita quotidiana, fatta di lezioni e campanelle, sotto l’assedio dell’estate la quale, dalla fine di maggio per tutta la prima settimana di giugno, un passo alla volta si insinua nelle aule.

Ai miei tempi dapprima ci faceva visita una mosca: non essendo iscritta nel registro, poteva ben dirsi clandestina. Giocava con noi, ci annoiava e ci faceva ridere sorda alle proteste dell’insegnante. Poi, seguendo il suo esempio, entravano calori, profumi, suoni lontani. Soprattutto, nel tempo si aprivano nudi squarci: minuti vuoti, ore liberate dal ritirarsi dei ghiacciai didattici. La fine della scuola, ieri come oggi, è una stagione in sé, e andrebbe aggiunta alle quattro canoniche. Poterla vivere è, come molte cose nella vita, un dono vero.

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