La giuria 2

La giuria 2

Cito a memoria, ma credo di non sbagliarmi. Negli ultimi anni, il cinema italiano ha presentato alle giurie del Festival di Cannes le seguenti pellicole: «Il Caimano» di Nanni Moretti, «Sanguepazzo» di Marco Tullio Giordana, «Vincere» di Marco Bellocchio e «Draquila» di Sabina Guzzanti. Se ne deduce che, se non fosse per Berlusconi e Mussolini, in Italia non sapremmo che cacchio di film girare.
Un’eccezione, invero, c’è stata: «Il divo», di Paolo Sorrentino. Presentato a Cannes nel 2008, non trattava né di Berlusconi né di Mussolini. Trattava di Giulio Andreotti. Come dire: una boccata di aria fresca.
La domanda, inevitabile, è la seguente: possibile che la situazione - politica, sociale, culturale - sia talmente alle strette che, per un cineasta italiano, non ci sia scelta se non trattare del duce o del Cavaliere? Non c’è altro, in Italia? Non ci sono storie, aspirazioni, sogni, ombreggiature ignote, piani alternativi, esplorazioni diverse ed egualmente necessarie? Pensa che ti ripensa, un solo cineasta ha trovato un’idea differente: «Ah, già: ci sarebbe Andreotti».
Attenzione: non si tratta di invitare i registi all’autocensura né di alzare steccati intorno alle tragedie del passato e alle controversie attuali. Basterebbe solo una semplice riflessione: sul fatto che l’Italia sia, a 150 anni dalla sua unificazione, ancora tanto insicura di sé stessa da aver bisogno di idoli da elevare e quindi da distruggere, in un affannoso travaglio sordo a ogni altro stimolo. Il resto, infatti, è silenzio. E non certo degli innocenti.

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