La giuria

La giuria

Ho visto, tra le immagini provenienti dal Festival del cinema di Cannes, quelle dedicate alla giuria. La compongono un presidente americano e, tra gli altri, un’attrice italiana, una inglese, uno scrittore francese, un attore portoricano e due registi: uno spagnolo, l’altro indiano. Le fotografie li ritraggono uno accanto all’altro: sorridenti, cortesi e molto, molto civilizzati. Le stesse immagini mostrano anche quanto siano estranei l’uno all’altro. Più che estranei: stranieri.
Insomma, perfino nella vetrina di una rassegna internazionale ognuno reca con sé un poco del provinciale che, inevitabilmente, è stato o ancora è. La giuria del Festival, così riunita per la prima volta davanti ai fotografi, sembrava essersi incontrata - o, per meglio dire, sembrava essere casualmente convenuta - in quelle aree che, negli aeroporti, precedono il cancello d’imbarco. Per qualche minuto, in quei luoghi si forma un’artefatta convivenza tra viaggiatori occidentali e orientali, settentrionali e meridionali. Un turbante torreggia accanto a un berretto da baseball e, nell’aria filtrata dai condizionatori, il sentore delle spezie si mescola all’afrore della birra.
È questo il momento in cui l’umanità più s’avvicina, sia pure con imbarazzo, a diventare un tutt’uno, a «integrarsi», come si dice con parola abusata, a formare la giuria di se stessa, disponendosi rispettosamente al reciproco confronto. Poi l’aereo parte e, se parte, è per arrivare in qualche luogo dove l’umanità subito si disperde. Così è, sempre: il resto, anche a Cannes, è soltanto un film.

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