Ve lo ricordate Sanremo? E’ stato più o meno due settimane fa, qualcosa di meno a dirla tutta. Adesso che è finito e che ad Arisa, la vincitrice con la canzone “Controvento”, pensiamo ogni giorno meno dal poco che comunque ci pensavamo anche prima, posso dire la mia: a me, su tutti, è piaciuta Paloma Faith. Che non era a Sanremo, obietterete voi. E vi sembra poco?, ribatto io.
Scherzi a parte, questa predilezione per Paloma Faith è una cosa che mi sento di dover confessare. Non so se conoscete il soggetto: giovane cantante inglese (ma per metà, quella del padre, è spagnola) ha debuttato nel 2009 e da allora ha firmato due album di successo soprattutto nel Regno Unito e in Irlanda. Un terzo è in arrivo a breve. Bella voce, un po’ alla Etta James, tra jazz e R&B, Paloma si dedica soprattutto al pop, ma di buon livello. E poi è eccentrica: al punto giusto, direi, se mai è possibile essere eccentrici con moderazione. Vamp tascabile, coloratissima, piuttosto ironica.
Ma quello che in lei mi sorprende davvero è la voce o, meglio, il cambiamento della medesima dal parlato al cantato. Nelle canzoni il suo inglese è privo di accento, e diventa vellutato o aggressivo alla bisogna. Nelle interviste, sfodera invece un inglese “working class” quasi incomprensibile, fatto di sillabe masticate, suoni nasali, interiezioni gibollate. Quello che Dickens mise in bocca al suo Mr. Peggotty in “David Copperfield”. La doppia vita sonora, per così dire, di Paloma Faith mi fa pensare ai misteri del cervello e soprattutto alle sue profondità creative. E’ chiaro che quando è impegnata a cantare – e come lei tutti i cantanti che usano la voce a mo’ di strumento –, Paloma attiva una parte di se stessa lontana da quella verbale: il suo distacco, così radicale e simpaticamente schizofrenico, la dice lunga su quanto potremmo ottenere da noi stessi se solo sapessimo, in qualche modo, liberarci dalle gran balle che ci girano per la testa. Forse potremmo infine cantare per davvero la nostra canzone.
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