La parola

La parola

Era un pezzo che una parola stampata non mi faceva tanta impressione. Mi è accaduto ieri, sfogliando i giornali e visitando alcuni siti web: come al solito, l’impressione era di scendere lungo una corrente ben conosciuta, un fiume poco attraente e, soprattutto, senza sorprese. Le parole sfilavano come vegetazione indistinta, familiare e dunque superflua. Mafia, ospedali, fisco, tribunale. Consumi, scandalo, traghetto. Fuoco, marinaio, abbandono. Tasse, scommessa, furto. Che cosa mai potevano dirmi di nuovo?

Un tempo, forse, erano attrezzi freschi, affilati, scintillanti di acciaio, vibranti di cavalli vapore: utensili adatti a raccontare fatti veri, sorprendenti, ancora sconosciuti all’avventura umana. Ora ripetono filastrocche lise, drammi scontati, tristi conferme di inadeguatezza morale. Le tiriamo fuori, ogni mattina, per abitudine e per mancanza di alternative: ostinati contadini dell’informazione, con esse continuiamo a zappare un arido fazzoletto di terra.

Ma ecco che qualcuno, per distrazione o forse per inesperienza, si era lasciato scappare una parola imprevista, indisciplinata, che ha avuto l’effetto di uno schiaffo.

La parola era: solitudine.

Non importa in quale contesto era stata usata: nel grigiore degli automatismi gergali essa brillava di luce propria. C’è mancato poco che restassi senza fiato: ero di fronte a una parola vera, il cui significato, ancor più che preciso, era una sfida al mio coraggio di esplorarlo. "Solitudine" era una parola che comportava conseguenze, apriva una visione su un abisso senza mediazioni e metteva in discussione la mia capacità umana di comprenderla in tutta la sua forza eccitante e definitiva.

Vista da sola, come una montagna di cristallo all’orizzonte, fiera nel rifiuto di confondersi con i rottami che la circondavano, aveva tutta l’impudenza di uno scandalo. Se solo "scandalo" fosse ancora oggi una parola scandalosa.

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