La parte di Casoria

Meglio sarebbe stare alla larga dell’invidia - sentimento abietto tra i sentimenti meschini - ma qualche volta è inevitabile sentirsela addosso. In più, credo non mi si possa biasimare se provo un poco di invidia per un personaggio tanto amato quanto ormai lontano nel tempo: Totò.

L’attore napoletano ha lasciato un curriculum di film non di rado mediocri ma quasi sempre illuminati da intuizioni folgoranti, trovate geniali perfino oltre le intenzioni del loro creatore; un artista tutto istintivo, capace di prendere al volo un’increspatura del linguaggio e renderla di colpo buffa e significativa.

Per venire al punto, ciò che invidio a Totò è il ragionier Casoria.

Nell’ottimo film “La banda degli onesti” (diretto nel 1956 da Camillo Mastrocinque, un esperto nel maneggiare la dinamite dell’umorismo di Totò), il ragioniere Casoria, amministratore di condominio truffaldino e ricattatore, si identifica non tanto con il male assoluto quanto con quello relativo, ovvero quotidiano e multiforme.

Nel proporre a Totò, modesto portinaio, un accordo ladresco, minacciandolo di licenziamento in caso di diniego, egli diventa - per Totò ma anche per tutti noi - l’incarnazione di tutti i compromessi insoddisfacenti ai quali la vita ci costringe, al male non tanto banale quanto inevitabile, endemico, padrone di una società rassegnatasi al motto «così va il mondo».

Nel film, che racconta il goffo tentativo di riscatto del portinaio e dei suoi complici - il tipografo Peppino De Filippo e il pittore Giacomo Furia -, Casoria è un malfattore (e «profittatore» secondo la definizione di Totò) che assurge a categoria diffusa eppure ancora identificabile, potente ma del tutto distinguibile. Oggi pare invece che i Casoria marcino a plotoni, compagnie, reggimenti e non c’è più soltanto il rischio, come diceva Totò. di «passare dalla loro parte». Purtroppo, di “parti” non sembrano essercene altre.

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