Sì, non è stato bello vedere un ministro rispondere (anzi, non rispondere) a un giornalista con il tono di un dodicenne infastidito, neppure è stato bello sentirlo fare un’allusione volgare alla sessualità del giornalista di cui sopra e, infine, non ha fatto onore alla categoria dei lavoratori della stampa il fatto che nessuno, tra loro, se la sia sentita di difendere il collega. Se devo essere sincero, però, la cosa tra tutte mi ha più stupito (indignato no, perché è questa una parola abusata e non voglio contribuire al suo definitivo annientamento) è che il simpatico teatrino si sia svolto nella severa cornice della Papeete Beach di Milano Marittima.
Un tempo il linguaggio del dibattito politico e sociale utilizzava spesso il concetto di “Palazzo”: lo aveva inventato Piero Paolo Pasolini, in un editoriale per il Corriere della Sera. Palazzo era diventato così il simbolo del distacco tra l’autorità e l’uomo della strada. Nel Palazzo si muovevano i politici, impegnati in manovre dettate da una logica tutta interna e aliena, nonché indifferente a quanto avveniva fuori, nelle strade e nelle case del “Paese reale”. L’immagine stessa del Palazzo rimandava un’idea di estraneità e di privilegio, di impossibilità di comunicare, di capire i bisogni dell’uomo della strada. Tra Palazzo e fortezza, in fondo, c’è poca differenza: l’impianto architettonico è sempre votato all’inaccessibilità, al dominio fisico sul territorio circostante, alla promessa di eternità impressa nel cemento e nel granito.
Il Palazzo, oggi, si è trasferito sulla spiaggia a volerci convincere, forse, che la frattura tra la classe politica e la gente è risanata: una vistosa concessione all’informalità, al casual, all’infradito, a quella sua maglietta fina tanto stretta al punto che mi immaginavo tutto.
Insomma se il Palazzo non c’è più e la spiaggia è ancora quella che accoglieva il popolino negli anni del Boom, con l’ombrellone, il materassino, le pinne e gli occhiali, allora vuol dire che la politica davvero si è avvicinata ai cittadini. Ma questo vuol dire anche che, vicina com’è, ha imparato ad ascoltare o addirittura a dialogare? Dopo tutto, se il luogo della politica è cambiato, e certamente è cambiato il linguaggio, non è lecito sperare che sia mutato il suo rapporto con la gente?
Essendo questo un Paese gattopardesco, come lo stesso Pasolini volle annotare, un minimo di sospetto è lecito conservarlo. Più che il contatto con i cittadini, infatti, la politica sembra preoccupata di mantenere la connessione: quella che dai microfoni passa ai social, dai telefonini alle menti e al cuore. La connessione non può cadere, pena l’oblio e la dissoluzione: va solo resa mobile, in modo che possa seguire ovunque il politico, il quale esiste solo se è a tiro di wi-fi. Uno spettacolo itinerante che segna una svolta, invero significativa: dal Palazzo siamo passati al Circo. Dopo tutto, di clown quaggiù non c’è mai penuria.
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