Una delle posizioni di Donald Trump che più hanno sollevato critiche è quella sulla tortura. Nel riferirsi alle contromisure da opporre al terrorismo, Trump non ha escluso l’applicazione di tecniche di interrogatorio chiaramente confinanti con la pratica di cui sopra. La giustificazione? «La tortura funziona».
Per molti, l’obiezione a questa posizione è di carattere puramente etico. La tortura è disumana, immorale e incivile e applicarla per difendere, in teoria, la civiltà occidentale è una contraddizione: come possiamo definirci civili se ci comportiamo da incivili? Un’osservazione, in sé, giustissima, ma indifesa davanti all’attacco di certo supposto realismo. Supponiamo infatti che un’informazione ricavata applicando una tecnica di interrogatorio violenta - come il “waterboarding”, in passato applicato dagli americani - abbia consentito di sventare un attentato nel quale avrebbero potuto perdere la vita molte persone (o anche una soltanto, se per questo): ebbene, poteremmo ancora sostenere in piena coscienza che la tortura è sempre e comunque da respingere?
L’obiezione morale, dunque, non è del tutto inattaccabile. Meglio: se la consideriamo tale potremmo essere chiamati a pagare per la sua difesa un prezzo molto alto. Purtroppo per Trump, però, questo non risolve la contesa a suo favore e neppure la porta a un pugilistico “no contest”. Chi ha studiato la tortura, infatti, oppone al presidente Usa un’obiezione scientifica: non è affatto vero che la tortura funzioni, tutt’altro.
Shane O’Mara, neuroscienziato al Trinity College di Dublino dice che i riscontri sono tutti contro la tortura: «Lo stress che essa impone finisce per danneggiare la memoria e per creare falsi ricordi». Chi è sotto tortura, insomma, ha la memoria breve e racconta un sacco di balle. Guardandoci intorno, vien da chiedersi se per caso c’è in giro qualcuno che pratica la tortura di massa.
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