Davanti al pasticcio romano - quello comunale, intendo - l’astensione da parte mia è d’obbligo: troppo intricate e troppo avvelenate le vicende interne al Pd che vorrebbero invece presentarsi come una questione di scontrini. L’astensione sullo specifico non giustifica però quella sul generale: è legittimo, e anzi doveroso, preoccuparsi per il destino di Roma. Su questo, avrei le idee chiare: si è ammessa, e anche realizzata, la possibilità che eccellenti musei italiani vengano affidati a curatori stranieri, non si vede perché non sia opportuno fare altrettanto con Roma che, dopo tutto, è il museo più eccellente del mondo. Certo, la città non è solo storia e arte: anche trasporti, servizi e sicurezza hanno la loro importanza. Supponiamo che di queste cose ci si possa fare carico noialtri: il resto di Roma, l’essenza che la rende eterna, va tuttavia affidato al meglio che c’è: italiano o straniero non importa, non è questa la qualifica che fa da discrimine. Conta solo la competenza.
Personalmente, preferirei uno straniero: non per banale esterofilia ma per condivisione con quanto Henry James - un americano trapiantato in Inghilterra - scriveva nel 1899 in un saggio poi incluso nel suo libro “Ore italiane”.
Fresco di una visita a Palazzo Corsini di Firenze in occasione dei fuochi per la festa di San Giovanni Battista, James, rapito dall’incanto, arriva a dire che di conservare Firenze si occuperebbero meglio gli stranieri degli italiani. Non per sfiducia in questi ultimi, ma perché uno straniero in qualche modo riesce a “possedere” di più il luogo scelto e amato.
«Ci vorrà più tatto di quanto possa escogitare la nostra accorta genialità - scrive James - per convincerli (gli italiani, ndr) che quanto è loro è, per effetto di una logica stringente, più “nostro” che loro. Ci vorrà più sottigliezza ancora per tratteggiare quella serie di esempi decisamente illuminanti da cui essi possano apprendere che ciò che in generale è “nostro” apparirà loro come un sacrificio dovuto alla bellezza e al trionfo del gusto».
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