La regina del fare

Sento spesso lamentare la povertà di linguaggio dei ragazzi. A parte abbreviazioni, acronimi, interiezioni come “cioè”, “infatti” e altre meno pubblicabili, i giovani, questa è la convinzione comune, hanno un vocabolario limitato, limitatissimo addirittura, e se non avessero a disposizione le cosiddette “emoticon”, ovvero le faccine più o meno sorridenti che si usano in Rete e nei messaggini telefonici, difficilmente saprebbero trasmettere le proprie emozioni attraverso il linguaggio scritto.

Niente di più falso. Al solito, gli adulti interpretano male ciò che concerne i ragazzi e arrivano, con tipica supponenza, a conclusioni sbagliate.

In fatto di linguaggio, i ragazzi non sono “poveri”: semplicemente, non badano alla quantità ma alla qualità. Per loro, non è importante conoscere molti vocaboli quanto padroneggiarne pochi con assoluta disinvoltura. Diciamo che scelgono una parola - sia essa un nome, un aggettivo o un verbo - e di essa fanno un uso da virtuosi, come quei violinisti che costruiscono miracoli sonori su una sola corda. Per esempio, ieri ho incontrato la reginetta del “fare”.

Bionda, forse sedici anni, raccontava a un coetaneo che pure ostentava un’espressione da veterano della Legione Straniera, una storia il cui spunto essenziale era “chi si è fatto Simone”.

Il problema, vedete, era che una sua amica sosteneva di «essersi fatta Simone per farsi bella, ma io cosa posso farci? Io mi faccio i fatti miei, lei si faccia i suoi. Ti fai Simone? Fattelo. Se te lo fai tanto per fartelo e per farti vedere in giro come quella che si fa Simone secondo me ti sei fatta fuori il cervello. Cioè, cosa vuoi che faccia io se tu ti fai lui? A parte che non sono fatti miei, io mica mi faccio problemi. Una mia amica invece mi fa: ma secondo te si fa così a farsi Simone solo per farsi vedere che se lo è fatto? Non si fa così, dice lei. Ma io le faccio: se lei se lo vuole fare per farsi vedere in giro a farselo avrà i suoi motivi per farlo. Io non ci faccio una tragedia. Sono fatta così...»

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