La risposta perduta

Comparve all’improvviso. Eppure, grande com’era, qualcuno avrebbe dovuto notarlo prima. Si erano visti, questo è vero, un paio di omini in camicia e cravatta. Spaventapasseri animati, avevano gesticolato per una mezz’ora faccia a faccia nel campo ingiallito dalla calura. Erano così piccoli che nessuno aveva dato loro importanza. Più tardi, dalla strada erano saliti un paio di camion. Nient’altro. Come, da così esigue premesse, il Cantiere avesse potuto diventare imponente al punto da far paura, non fu mai chiaro per nessuno.

Si seppe soltanto che in fondo alla strada masticata da grossi pneumatici era sorto un tremendo altare di sabbia e ghiaia, un terrapieno a sbalzi alto come un palazzo. Un gran castello grigio che pareva costruito da un gigante bambino. Un gigante triste, con poca fantasia: il terrapieno era squadrato. A lasciar correre lo sguardo lungo il suo perimetro uniforme, prima ci si annoiava, poi si veniva colti da sgomento: il panico soffocante di chi ha perduto la via su un pianeta straniero.

Si seppe che era un progetto importante, sul quale si faceva molto conto: infatti erano stati stanziati parecchi milioni e c’erano già stati due morti. In cima al contrafforte non si vedeva mai nessuno. Almeno, nessuno a piedi. C’era solo un gruppo di escavatrici: avevano luci gialle lampeggianti e pale lunghe e sottili. Tastavano il terreno, lo sondavano con la precisione di robot da laboratorio.

Un giorno, finalmente, un operaio scese da una delle escavatrici per fumare una sigaretta e, dalla strada, presero a gridargli: «Che cosa state facendo?» L’operaio non capiva - il rumore delle macchine copriva le voci - poi gridò di rimando: «Scaviamo». «E che cosa pensate di trovare?» Dovettero ripetergli la domanda più volte perché l’afferrasse. La risposta andò in buona parte perduta. Tutti però concordarono sul fatto che l’operaio aveva detto «lavoro», prima di allargare le braccia.

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