A tutti quelli che mettono confini alla satira, installano dogane del buon gusto e, con sussiego, spiegano che si può criticare, d’accordo, ma mai offendere, rispondo con una parola sola: Razzi.
La pur godibilissima caricatura del senatore abruzzese proposta da Maurizio Crozza nel suo show ha infine creato il mostro. Spiritosa ma indulgente, buffa ma pietosa, l’imitazione crozziana ha spalancato al Razzi autentico le porte dell’autoassoluzione. La sua raccomandazione a “farsi i c...” propri? Soltanto una tenera furberia da italiano che se la cava sempre e comunque. L’avidità bambinesca per il “vitalizio”? Niente altro che l’intelligenza agile e monellesca tipica del carattere nazionale, ovvero l’opportunismo sorridente di chi annusa un (facile) guadagno e ci si butta a pesce.
Anni e anni di Totò, Sordi e Nino Taranto cotti a fuoco lento e serviti in una finzione che, fatto al pubblico l’inchino da avanspettacolo, diventa realtà senza colpo ferire: il Razzi vero, sdoganato da quello finto, invade il web intonando il brano “Famme cantà”. Buona cosa che dei due della coppia Lennon-McCartney almeno uno non possa sentirlo.
Ciò detto, torniamo a bomba. Che satira è quella che fa comunella con il “nemico”, avalla la furbizia trasformandola in un tratto grottesco ma amabile, birichino ma divertente? È la satira con le marce ridotte, quella che rispetta i confini di cui sopra, tiene conto degli assetti istituzionali e alla fine fa l’interesse suo in tacita combutta con quello del bersaglio che finge di mirare. Purtroppo, la nostra satira è questa: modellata nell’autocensura e incapace - salvo casi marginali - di superare il confine della controversia e della provocazione. Una volta che si è dichiarata disponibile a rispettare limiti e tabù, diventa facile rinchiuderla nel recinto: di politica meglio non parlare, la religione non si tocca, la magistratura per carità, la grande industria neanche a pensarci. Ma a chi serve una satira così? Solo a chi la fa e a chi fa finta di subirla.
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