Ho letto, ieri, due articoli interessanti. Di norma, abbastanza per congratularmi con me stesso: ecco due spunti per altrettante "edizioni" di questa rubrica. Purtroppo, ho presto dovuto ritirare le congratulazioni: di materiale ce n'era, e parecchio, ma stante una curiosa convergenza dei due articoli, mi ritrovavo costretto a unirlo in un solo commento.
E pensare che i temi di partenza sembravano lontanissimi se non diametralmente opposti: l'agricoltura e il linguaggio. A unirli, però, l'identica minaccia: quella della omogenizzazione e della perdita di diversità.
Il primo articolo si preoccupava di registrare, partendo da dati raccolti negli Stati Uniti, la progressiva riduzione di varietà di frutta coltivate. Enfasi era posta sul dato delle mele: delle 7.500 specie esistenti, solo cento vengono costantemente prodotte negli Usa. Il problema, naturalmente, non riguarda solo le mele: un'infinità di altre frutta (e verdure) viene trascurata in favore di un mercato dai gusti sempre più circoscritti. I rischi sono alti: coltivazioni tanto omogenee potrebbero esporci a catastrofi irreparabili se teniamo conto dei rischi di cambiamento climatico e di eventuali malattie delle piante.
Il secondo articolo, esaminando il tenore dei messaggi lasciati sui social network, arrivava alla stessa conclusione: la lingua che usiamo è sempre più circoscritta, le sfumature che è in grado di esprimere sempre più limitate, i concetti che riesce a illustrare sempre più elementari. Il rischio, lo stesso: l'impoverimento. Emozioni che sarebbe affascinante sentir descrivere attraverso mille sensibilità e mille culture, diventano "faccine" buone (?) per tutte le latitudini. Che ironia: la comunicazione corre libera da ostacoli al prezzo di non dire più (quasi) niente. Il pedaggio pagato alla sconfitta di Babele è altissimo: unificato il linguaggio non resta più nulla da comunicare. Delle poche frutta che continuiamo a coltivare, questa è certamente la più amara.
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