Penso sia significativo che il governo abbia aspettato le giornate più calde dell'anno per promuovere il decreto del “fare”. Ora che buona parte della popolazione è schiantata dall'afa e cerca, per semplice autodifesa, di muoversi il meno possibile, di contenere ogni possibile reazione chimica che, nel corpo, possa produrre calore, l'esecutivo se ne viene fuori con un ventaglio - magari! - con un bagaglio di attività.
Il che la dice lunga, credo, sull'idea che il governo ha dell'azione, della costante ripetizione di sforzi, della applicata concentrazione alle idee e della attenta gestione delle risorse. Concetti che, uniti in una definizione comune, vanno sotto il nome di “lavoro”. Ancora una volta, dunque, il Paese e i suoi governanti non sembrano in sintonia.
Ma, forse, è sciocco e superficiale legare il caldo al “fare”: l'Italia aveva bisogno di strumenti che stimolassero l'economia e poco importa se questi sono stati forniti in luglio piuttosto che in aprile o gennaio. L'importante è che siano arrivati.
D'altra parte, è difficile non sorridere di fronte a questa scoperta, da parte del governo, del verbo “fare”, innalzato addirittura all'onore di titolo del decreto. Mi chiedo, prima di arrivare a questa scoperta, che cosa pensassero di noi i governanti, che cosa credessero volessimo da loro se non l'impegno a “fare” qualche cosa. Si sono ritrovati con il Parlamento assediato, nei comizi sono stati zittiti da da fischi e ululati. Nelle urne, le poche schede rimaste risultavano coperte di contumelie. “Ma che vogliono questi da noi?” si saranno chiesti con smarrimento. “Magari” avrà suggerito uno, “magari vogliono che facciamo qualcosa”. Ma forse, quando per la prima volta queste parole risuonarono nella bouvette, i tempi erano ancora prematuri e la reazione, come sempre accade per le idee rivoluzionarie, fu ostile e sarcastica. “Ma vai fuori dai ballotaggi” avranno detto al malcapitato. “Fare! Fare qualcosa! Mi dica lei, caro collega, che cosa si deve sentire al giorno d'oggi”.
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