Abolire le tasse, non c’è che dire, ha sempre un effetto benefico. Illusorio, si capisce, ma in qualche modo benefico. Prendiamo quanto accaduto l’altra sera: dopo ore di discussione a palazzo Chigi, una riunione convocata al solo scopo di aumentare la suspence, il governo ha annunciato l’abolizione, per il 2013, dell’Imu sulla prima casa.
Tutti, anche i più scettici nei confronti della politica, anche i più determinati avversari dei partiti che compongono la coalizione, per un attimo si sono sentiti sollevati o, meglio, non hanno potuto evitare di sentirsi sollevati. Perfino l’imminenza della guerra in Siria, da incubo, diventava bazzecola: «Ma sì, cosa vuoi che siano quattro bombe!». A questo arriva l’umano rifiuto dei balzelli: per contestare la rimozione di un’imposta occorre uno sforzo della volontà, occorre mettere in campo il pensiero.
Bisogna dire che, per quanto riguarda l’Imu, non c’è stato bisogno di chissà quale impegno mentale per riconoscere la magagna di tutta l’operazione: vero che la tassa sulla prima casa per quest’anno se ne va, ma tornerà l’anno prossimo, in qualche forma, sotto il nome di “service tax”.
Questa mutazione nominale dell’Imu ha suggerito a un’amica una riflessione interessante: «Vuoi vedere che continuano a cambiare nome alle tasse per fare in modo che noi non si possa esclamare, sbuffando: “Uffa, ecco la solita tassa”?» La tassa, infatti, pur rimanendo tassa, non può essere chiamata “solita tassa” perché ha cambiato nome: Ici, Imu, Tares, service, eccetera. Un mimetismo gattopardesco che sottrae al cittadino la soddisfazione di uno sfogo ben meritato.
Avrei un suggerimento: imporre per decreto, magari attraverso un referendum, che la tassa venga ufficialmente battezzata, l’anno prossimo, Solita Tassa. Non ci sarebbero più scappatoie e noi potremmo darci dentro: «Hai pagato la Solita?», «Vado a pagare la Solita», «Quando scade la rate della Solita?», «Anche quest’anno la Solita Tassa», «Che tassa vuoi abbia pagato? La Solita!».
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