La Spagna che vince

La brutta figura della Spagna campione del mondo e d’Europa in Brasile si presta a molte interpretazioni - tattiche, psicologiche, sociali - e ho paura che ce le beccheremo tutte. Di certo è singolare - anche se non inedito - che una squadra per anni irraggiungibile, maestra di calcio e di spettacolo, vada raccogliendo schiaffoni e gol in egual misura.

Questione di motivazioni, diranno i tecnici, citando, inconsapevolmente, il famoso «stay hungry» («restate affamati») del guru di Apple Steve Jobs. In effetti, la concentrazione dei giocatori spagnoli non è apparsa al top. Busquets è stato sorpreso durante un’azione di gioco a trattare, via telefonino, la compravendita di azioni alla Borsa di Madrid. Da parte sua, Iker Casillas non ha rimediato miglior figura quando, durante la partita con il Cile, ha parcheggiato la sua Porsche nell’area piccola e si è messa a lavarla con abbondanza di sapone e gran spiegamento di pelli di camoscio. Alcuni esperti hanno sostenuto che la reattività del portiere iberico poteva risultarne compromessa. E che dire di Xavi Hernandez il quale, invitati alcuni amici di famiglia a centrocampo, ha servito un tè la cui eleganza è stata giudicata impeccabile dalla sezione “Life & Style” dell’Evening Standard ma che, sotto il profilo tattico, è apparso meno che adeguato.

Insomma, il tema centrale della questione è che vincere fa male a chi vuole vincere ancora o, se volete, che c’è un limite fisiologico alla competitività. Viviamo in una stagione - se non un’era - che spinge parecchio alla concorrenza e il flop della nazionale spagnola (ma anche noi italiani, nel 2010, reduci dal trionfo di Berlino abbiamo fatto la figura di un ronzino ad Ascot) deve far pensare: tutto ha un limite, anche se non vogliamo ammetterlo, anche se facciamo finta di non saperlo e anche se impostiamo tutto come se tutto ciò non fosse vero. Darcene memoria potrebbe essere (dipende solo da noi) la lezione della Spagna: nel suo piccolo, una vittoria anche questa.

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