La tassa creativa

La tassa creativa

Nessuna tassa è amata, poche sono tollerate, moltissime suscitano odio. Tra le più detestate, senz’altro il canone Rai. La ragione è che ormai da decenni la tv commerciale ha trasformato i programmi del piccolo schermo in un diritto acquisito, indirettamente pagato dal pubblico attraverso la pubblicità; inoltre, lo scarso appeal del canone deriva dal fatto che, una volta versati i nostri cento e passa euro e accesa la tv ci troviamo davanti a una trasandata festa, a un pubblico club di raccomandati e a un'esibizione di spreco che vorremmo almeno non aver finanziato noi.

Nonostante questa cattiva reputazione, il canone Rai andrebbe rivalutato perché, lungi dall'essere un odioso balzello tra tanti odiosi balzelli, emerge dalla massa e si distingue per particolare spirito d'iniziativa. Adesso ha trovato il modo di essere imposto anche a chi, in un negozio o in un laboratorio, possiede un computer, un tablet o uno smartphone. Straordinaria è la capacità di diffusione, di contagio diremmo, del canone presso elementi che, in apparenza, non lo riguardano. È come se pagassimo la tassa per gli immobili anche sulle scatole da scarpe o sulle casette per la bambola, o il bollo auto sulle macchinine.

Il canone Rai non è più soltanto odioso: è odioso in modo creativo. S'appiccica ovunque e balbetta una scusa, una qualunque, anche maldestra e improbabile, addirittura fasulla, pur di farsi pagare e di essere tenuto in considerazione. Coerente, in questo, con il sistema televisivo che rappresenta.

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