Credo di poter affermare che, nell’uso quotidiano del cervello, godiamo di una sorta di libertà condizionata. L’espressione, qui, è letterale: la libertà con cui formuliamo pensieri e idee è condizionata dalle idee e dai pensieri altrui e se la fonte ci sembra particolarmente autorevole, ecco che la nostra capacità di valutazione critica ne risulta alterata, vale a dire diminuita.
Per venire a capo del precedente sproloquio facciamo un esempio concreto. Ho letto ieri di una ricerca medica che, dal 1995, ha preso in esame oltre 400mila volontari di età compresa tra i 50 e i 71 anni. Nel 2008, circa 50mila partecipanti alla ricerca erano morti, ma «tra gli uomini che per abitudine bevevano due o tre tazze di caffè al giorno la percentuale di decessi risultava inferiore del 10 per cento rispetto a coloro che non ne bevevano. Ancor più clamoroso il dato tra i volontari di sesso femminile: la differenza era del 13 per cento». Se a tutto ciò aggiungo che a raccontare della ricerca era un articolo del New York Times ecco che, all’istante, la credibilità della medesima cresce non di poco. Al punto che il cervello si rifiuta di metterla in discussione.
In realtà, aggirato l’effetto ritardante dovuto all’autorevolezza della fonte, la conclusione della ricerca è, se vogliamo, più che discutibile. Siamo sicuri che sia il caffè l’unico fattore di discontinuità tra i candidati? Non è che, per caso, abbiamo creato un insieme artificiale basato su un’abitudine innocua per poi collegarlo a una risultanza che potrebbe essere invece legata a mille altri fattori (ambientali, genetici, alimentari)?
Resto sgomento di fronte all’idea che, smarriti nella nostra parentesi mortale, annaspiamo alla ricerca di collegamenti dove collegamenti potrebbero non esserci e di risposte dove, a rigore, neppure ci sono domande. Ma è un attimo: se qualcuno vuole aggrapparsi a una tazzina di caffè come a una scialuppa, per me faccia pure. Non lo criticherò per questo. Si ricordi però di metterci un po’ di zucchero.
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