La telefonata

La telefonata

Il telefono era nell’altra stanza ma potevo vederlo attraverso la porta socchiusa: appeso al muro, tutto nero, una gran cornetta di traverso come il cappello di un torero, il disco con i numeri bianchi visibili dietro i fori. Era una specie di muto convitato alla tavola di Pasqua. Attendeva imperturbabile il suo momento.

La famiglia, passandosi i piatti da portata, discuteva di scuola, lavoro, giardinaggio, automobili, salute (c’era sempre qualche rimedio nuovo da provare, una tisana miracolosa che avrebbe sgonfiato le gambe, lenito l’irritazione, sgorgato un’occlusione, ripristinato un muscolo), più raramente di politica, spesso di chi era morto, o di chi ancora non era morto ma «non era più lui», e sempre e comunque di guerra, di chi era tornato e chi no, di chi stava di qua e di chi stava di là, di chi la raccontava giusta e di chi la raccontava meno giusta.

Nel momento in cui ci si era dimenticati di lui, perché la conversazione si era incagliata in un disaccordo, in un passaggio polemico, sfiorando magari una vecchia ruggine, un sopito dissapore, ecco che il telefono squillava, fragoroso, insistente. Qualcuno correva a rispondere, come a placare di fretta un nonno irritabile. Quasi trattenevo il respiro mentre, di là, sentivo parlare: «Sì, sì, sì, auguri anche a te: buona Pasqua!». Poi l’annuncio: «Era A*** da Milano: saluta tutti e fa gli auguri». La conversazione riprendeva. Il telefono tornava al suo posto: discreto e silenzioso. Dalla porta, lo vedevo: era stata festa anche per lui, pensavo.

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