Douglas Rushkoff è un grande esperto di tecnologie digitali. Si occupa soprattutto dell’impatto che dette tecnologie hanno sulla società. Potrei definirlo un “guru”, se non fosse che l’espressione “guru” mi provoca certe fastidiose bolle dietro le orecchie.
Dunque, il non-guru ma esperto Rushkoff sostiene oggi che la tecnologia digitale, di cui sa tutto, sulla quale ha scritto infiniti libri e a cui dedica brillanti corsi universitari, non è affatto una bella cosa. Assomiglia molto, dice, alla tecnologia industriale tradizionale: è concepita allo scopo di portar via il lavoro agli umani. Un tempo si investì molto nelle macchine non tanto perché potevano fare certi lavori meglio degli uomini, quanto perché li potevano fare a costo più basso. Lo stesso accade con quella che Rushkoff chiama “industrializzazione digitale”: algoritmi sempre più sofisticati sostituiranno l’intervento umano in un vastissimo spettro di produzioni, abbassandone il costo. Non è chiaro a chi poi sarà destinato il risultato finale di queste produzioni: buttati fuori dal mercato del lavoro dagli algoritmi, non si vede come potremmo permetterci di acquistare i prodotti confezionati dai medesimi. Forse li compreranno gli algoritmi stessi.
Messo da parte un certo disagio davanti alla figura di Rushkoff – egli ci ricorda, all’inverso, uno di quegli eroi della rivoluzione proletaria che si sono riappacificati con la borghesia alla vista di una poltrona manageriale -, bisogna riconoscere che c’è molto di vero in quello che sostiene. Cediamo alla tecnologia perché, poco a poco, ci sottrae al disagio della fatica e del lavoro noioso. D’altra parte, per anni abbiamo denunciato l’alienazione delle catene di montaggio e l’abbrutimento del piccone: lamentarsi, oggi, sembrerebbe davvero capriccioso e contraddittorio. Avremo tempo per rifletterci, sprofondati su un divano a fissare la tv comprata a rate da un algoritmo.
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