Guardo la valigia e dico: "Niente da fare, non ti apro". So bene che mancano ancora molte ore alla partenza e che ci sono oggetti, nella valigia, che nel frattempo mi farebbero comodo. Ma la valigia è chiusa e chiuderla è stata operazione che ha richiesto un certo sforzo. Soprattutto, è un lavoro fatto, finito, e qualcosa dentro di me dice che per niente al mondo si deve scendere al livello di rifare un lavoro già fatto.
Questa decisione (?) la pagherò caro perché alcuni degli oggetti di cui sopra mi farebbero davvero comodo, potrei perfino arrivare ad ammettere che sono necessari, e dunque rischio che le ore mancanti alla partenza e quelle necessarie al viaggio si trasformino in un disagio più grosso di quanto normalmente già sarebbero. Ma no: i veri uomini non riaprono la valigia quando l'hanno appena chiusa. Altrimenti, quale messaggio manderebbero al mondo? Quale segnale di irresolutezza, impreparazione e mancanza di organizzazione?
Tra due fastidi dunque - quello di riaprire la valigia e quello di sopportare la mancanza degli oggetti in essa contenuti - scelgo per paradosso quello più prolungato nel tempo. Riaprire la valigia sarebbe infatti questione di un minuto o due, non di più, eppure non mi risolvo a farlo. Arrivo a convincermi che è una questione di onore, perfino di generica tutela contro lo sfruttamento e la schiavitù. Dove andremmo a finire se si ammettesse la possibilità di fare e rifare lo stesso lavoro? Alcune occupazioni sono ripetitive per natura, d'accordo, ma non è forse questa una ragione in più per chiudere un lavoro, almeno uno, quando lo si può dire finito?
La mia valigia, in realtà, non rappresenta con esattezza un lavoro finito, quanto piuttosto un lavoro finito male. Eppure, per me, il principio tiene: meglio così che arrendersi all'umiliazione di attendere di nuovo a ciò che non si è riusciti a completare subito. Al massimo, posso concedere che, coltivando idee del genere, non c'è da stupirsi che l'umanità sia un lavoro inconcluso.
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