La valigia vuota

Preparare una valigia non è un procedimento di particolare interesse. Raccontarvi di come io preparo una valigia, sarebbe dunque un argomento doppiamente inadatto a una rubrica. Tuttavia, essendo questo spazio in balia dei miei umori, affinché, come mi è stato detto, io possa «intrattenere il pubblico con la mia aneddotica», temo di non potervi risparmiare questa insipida narrazione.

Preparare una valigia era per me uno dei tanti impegni da assegnare alla pagina più affollata della mia agenda: quella delle cose da fare all’ultimo minuto. Per questa ragione, a poche ore se non a pochi minuti dalla partenza, mi mettevo in moto azionato soltanto dalla disperazione. Che cosa mai potrà servire? Indumenti, spazzolini, un libro, fazzoletti. Tutto veniva afferrato con una furia quasi febbrile e un discernimento offuscato dall’impazienza. Una volta a destinazione, non di rado scoprivo il risultato di tanta fretta: un soprammobile al posto del rasoio, l’elenco del telefono al posto del "giallo" da diporto.

Con gli anni, avvertendo la necessità di abbozzare la parvenza di una maturazione, ho trasformato l’invaligiamento in una procedura ad altissima specializzazione: il necessario viene dapprima elencato, poi raccolto in base a genere e volume, imballato a seconda del grado di fragilità e quindi inserito nel bagaglio secondo un preciso ordine: gli oggetti più pesanti sul fondo, quelli più leggeri sopra.

La procedura antica e quella più recente conservano però un tratto comune: la mia sorpresa finale. Che non è quella, immortalata da tante barzellette, di aver confezionato una valigia strapiena. Al contrario, è quella di averci messo poco: sempre meno, con il passare degli anni. È una sensazione strana: di malumore, invece che di soddisfazione, di sconcerto, invece che di compiacimento. Quasi che, come nella valigia, di me rimanga alla fine solo qualche oggetto di necessità: abbastanza, forse, per «intrattenere», troppo poco per condividere.

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