Trovare le cosiddette “buone notizie” è diventato sempre più difficile. Andrebbe osservato che, oltretutto, non è mai stato facile: è il concetto stesso di “notizia” a respingere l’aggettivo “buono”. La “notizia” equivale, nel mondo degli umani, alle strida che le scimmie lanciano nella foresta. Esse servono ad avvertire il gruppo di un intervenuto pericolo: le scimmie non “stridono” se tutto va bene, lo stesso fanno i giornalisti che, con i laboriosi quadrumani, hanno più di un punto di contatto.
Ciò detto, le buone notizie oggi scarseggiano in modo particolare. Oppure - e qui mi affido a una speranza documentata - la loro assenza è dovuta al fatto che le cerchiamo nel posto sbagliato. La questione è proprio geografica: siamo abituati a setacciare il mondo che conosciamo - l’Occidente, grosso modo - e invece è il resto del globo a riservare le sorprese più liete.
Quanti di noi, per esempio, si sono spinti fino a leggere notizie provenienti dalla Mongolia? Qualcuno, per fortuna, lo ha fatto e grazie a questa intraprendenza oggi sappiamo che il remoto Paese asiatico, quello per contenere il quale i cinesi costruirono la Muraglia, ha stabilito con atto parlamentare di abolire la pena di morte.
Potrà sembrare per noi un fatto marginale, addirittura irrilevante o, da parte della Mongolia, una conquista tardiva, ma non è così. Prima di tutto perché è curioso che il Paese di Gengis Khan - non precisamente un pacifista - abbia deciso di imprimere al suo sistema giudiziario una svolta così illuminata e poi perché ogni nazione conquistata all’abolizione del patibolo va salutata come un passo faticosissimo verso un mondo migliore.
I Paesi che hanno abolito la pena capitale, a tutt’oggi, non sono pochissimi, ma neanche tantissimi: la pratica resiste, applicata con frequenza maggiore o minore, in aree come gli Usa, la Cina e la Russia. Un saluto dunque alla Mongolia: così lontana ma così vicina alla nostra idea di futuro.
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