La voce della politica

Dopo una vita trascorsa nei bassifondi, il termine «postribolo» è passato in carico alla politica. Purtroppo per lui, molti dubitano che si tratti di una promozione. Semmai, è una riscoperta perché, a parte in qualche rilettura di romanzi ottocenteschi, non se ne faceva uso da tempo, al pari dell’ottimo «sdutto» e dell’affine «peripatetica».
Con le parole, è così: alcune riposano per decenni, poi, a un capriccioso mutar del vento, vengono richiamate in servizio. La politica è spesso la prima suonare l’adunata poiché, per sua natura, ha bisogno di un continuo ricambio di vocaboli per alimentare le sue battaglie.
A tempi diversi, tuttavia, parole diverse. Fino a non molti anni fa la politica amava la vaghezza, vi si rifugiava come in un caldo nido, ed ecco il successo di lemmi quali «riflessione», «esame», «confronto», «pacatezza», «intesa», «coniugare», «equilibrio». A un bravo politico bastava un pugno di espressioni soporifere per costruire impalpabili allocuzioni: chi mai potrà dimenticare l’eterea bellezza delle «convergenze parallele»?
In tempi son cambiati e, sempre più spesso, la politica accorda la sua voce, alternativamente, con gli aggettivi più tonitruanti («turpe», spregevole», «indegno») e il turpiloquio più infame: «flaccido c.», «pezzo di m.», «coglione», «testa di c.». Il culmine sarà raggiunto quando, nel suo discorso di fine anno, il capo dello Stato così si rivolgerà a tutti noi: «Carissimi str. che languite nei vostri lupanari...»

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