Dice un quotidiano nazionale che, a Roma, c’è una maestra che ha «modi grossolani». Questo perché «usa espressioni in romanesco» e bombarda i genitori, almeno alcuni di essi, di messaggi chat nei quali, circa la mancanza di una supplente, li invita ad andare «a baccaglià» davanti al municipio.
Nell’Italia del 2016, e anche in molte altre parti del mondo, questa è una notizia, perfino uno scandalo. In altri tempi sarebbe stato un problema, magari anche grave, ma difficilmente assegnabile alle competenze di una redazione. A meno che la maestra non avesse compiuto una strage, oppure minacciato di compierla.
Non è il caso della maestra di Roma, alla quale i genitori stessi, pur denunciando il caso, riconoscono di non essere «né cattiva né pericolosa». Solo un po’ ruvida negli atteggiamenti. La preoccupazione dei genitori è dunque rivolta ai piccoli: «In che mani finiscono quando li mandiamo a scuola?» In altre parole, come verrà su un pargolo avvezzo a sentir usare termini come «baccaglià»?
In realtà, non voglio fare dell’ironia sui timori dei genitori: immagino che crescere un figlio oggi sia fonte inesauribile di stress e incertezze. Mi chiedo però fino a che punto siamo autorizzati a leggere, nel linguaggio di qualcuno, un segnale della sua inadeguatezza al mestiere che fa o al ruolo sociale che copre.
Probabilmente la maestra sbaglia a parlare come parla - e soprattutto a inondare la gente di messaggi - ma sempre di più, a beneficio della nostra tranquillità, pretendiamo che un linguaggio piatto, povero e scontato come quello che si userebbe nello sport di un detersivo rappresenti la voce di chi ha una qualche responsabilità. Altrimenti fiutiamo un pericolo, una forma di pazzia: con questo, però, blocchiamo anche l’evenienza che l’interlocutore possa avere una sua personalità. A meno che non esageri, non diventi veramente volgare, tronfio, aggressivo e pericoloso. In quel caso, potremmo perfino acclamarlo presidente.
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