Ho l'impressione che, piano piano, avanzando con spostamenti impercettibili, timidi ma anche sapienti nella loro elusività, il concetto di "tagli" stia diventando popolare. "Tagli", ovviamente, è un'espressione che fiorisce - o meglio, mette le spine - in periodi di crisi: si annunciano tagli ai bilanci, all'occupazione, alla spesa pubblica, alla sanità, all'istruzione e alla ricerca. Sulle prime, la gente reagisce scendendo in piazza. È questa la fase del "non si tocca". «La sanità non si tocca» gridano i cortei, «l'istruzione non si tocca» rispondono gli striscioni. Alternativa al "non si tocca" è il "giù le mani" (per la buona ragione che le mani restano lo strumento più adatto per "toccare"): «Giù le mani dalle pensioni» vociano i sindacati prima di firmare l'accordo che provvederà a manipolarle con tutto il vigore possibile.
Credo che questa fase - il "non si tocca" o "giù le mani" - sia stata superata: sbaglierò, ma stiamo entrando nella fase successiva, quella in cui i "tagli" - beninteso, quando non ci colpiscono direttamente - diventano sinonimo di virtù, di retto agire e di virtuoso amministrare e producono una diffusa, ancorché generica, sensazione di esaltata voluttà. Non c'è dubbio che, visti in tempi, tagliare qui e là sia più che necessario e, anzi, moralmente doveroso. Dubito però, ma certo è una preoccupazione soltanto mia, che questa esaltazione per la lama che alleggerisce, per la scure che riduce e, se volete, per la forbice che scarta, possa diventare una sorta di uniforme mentale, di conformismo diffuso. In altre parole: l'ennesima occasione per costruire pregiudizi e facili moralismi rimpinguando così il sentenziare ipocrita che spesso ci distingue.
Mettiamola così: facciamo i tagli, perché dobbiamo e perché altrimenti le cose potrebbero andar peggio, ma, per favore, continuiamo a pensare che l'opulenza (da non confondere con spreco e ingordigia) sia una cosa tutto sommato buona. Ne abbiamo diritto, se non altro, in quanto mortali.
Credo che questa fase - il "non si tocca" o "giù le mani" - sia stata superata: sbaglierò, ma stiamo entrando nella fase successiva, quella in cui i "tagli" - beninteso, quando non ci colpiscono direttamente - diventano sinonimo di virtù, di retto agire e di virtuoso amministrare e producono una diffusa, ancorché generica, sensazione di esaltata voluttà. Non c'è dubbio che, visti in tempi, tagliare qui e là sia più che necessario e, anzi, moralmente doveroso. Dubito però, ma certo è una preoccupazione soltanto mia, che questa esaltazione per la lama che alleggerisce, per la scure che riduce e, se volete, per la forbice che scarta, possa diventare una sorta di uniforme mentale, di conformismo diffuso. In altre parole: l'ennesima occasione per costruire pregiudizi e facili moralismi rimpinguando così il sentenziare ipocrita che spesso ci distingue.
Mettiamola così: facciamo i tagli, perché dobbiamo e perché altrimenti le cose potrebbero andar peggio, ma, per favore, continuiamo a pensare che l'opulenza (da non confondere con spreco e ingordigia) sia una cosa tutto sommato buona. Ne abbiamo diritto, se non altro, in quanto mortali.
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