Quando c’è aria di guerra - mi correggo: quando c’è aria di “missione di pace”, ovvero di una di quelle iniziative in cui il mondo occidentale bombarda a morte qualcuno in modo da chiarirgli le idee - quando c’è aria del genere, dicevo, un esercizio sempre molto interessante è scrutare la signora Malinpeggio cercando di sorprenderla in un’espressione soddisfatta. Non dico che la signora ami le armi in sé e per sé, ma le guerre sono sempre il sintomo che qualche cosa è andato storto e le cose che vanno storto confermano la signora nella sua visione radicalmente pessimistica dell’uomo.
Capirete, dunque, come incontrando ieri la signora Malinpeggio sulla banchina della stazione abbia senz’altro proceduto all’esame di cui sopra. Per alcuni minuti ci siamo fissati senza parlare, lei con l’espressione impenetrabile di una dea greca, io con la smorfia tipica di chi viene colto da ictus mentre sta risolvendo le parole crociate.
«E va bene!» ho sbottato infine. «Ha vinto lei. Sul suo volto non c’è traccia di sorriso. Neppure una piccola increspatura del labbro superiore che potrebbe rilevare un moto di intima soddisfazione. Se è contenta per questa nuova guerra, signora, è riuscito a tenerlo per sé. Ciò non toglie che dovrebbe vergognarsi!»
«Facciamo una bella cosa» ha risposto la signora con calma, «incominci a vergognarsi lei che poi io le vengo dietro».
«Vergognarmi io? Per quale ragione? Non sono io quello che va in estasi per le guerre».
«Neppure io, se è per questo. Lei confonde il pessimismo con il cinismo, il realismo con l’aridità e il pragmatismo con l’opportunismo. Riveda la sua opinione: io non amo le guerre».
«Ah, no? E che effetto le fanno?»
«Mi fanno tornare bambina».
«Lo vede!».
«Non ha capito. Alla guerra reagisco sempre come un bambino reagisce alla nascita».
«Sarebbe a dire?»
«Piango».
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