L’arma superficiale

ieri, in pochi istanti, e con la sola assistenza ormai quasi scontata di un computer avremmo potuto vedere con i nostri occhi un aeroplano che si schianta e un uomo bruciato vivo. Potere delle telecamere: di passaggio per pura coincidenza, come è accaduto a Taipei, dove c’è stato il disastro aereo, oppure puntate con feroce determinazione, come nel caso del degenerato e ignobile assassinio perpetrato, ancora una volta, dal cosiddetto Isis. Non giudico - non ho bisogno di farlo - chi usa i video per la propaganda dell’orrore e non mi lancio in una tirata sociologica sulla presenza massiccia degli occhi elettronici nell’ambiente che ci circonda. Da uomo e da modesto, pochissimo dotato seguace di Montaigne mi interrogo, come diceva Jannacci, sull’effetto che fa.

Vedere un uomo che muore assassinato, avvenimento un tempo estremo, al quale si era costretti quasi sempre dalle guerre, è oggi affare comodo, perfino domestico, se uno se la sente. Assistere a una catastrofe significava in passato esserne coinvolti, o quantomeno sfiorati: oggi è un evento fatto di pochi secondi catturati da un supporto elettronico. Secondi che si possono ripetere e ripetere ancora finché diventano lisi, perdono colore ed emozione. In ultima analisi: perdono significato.

La domanda diventa allora questa: la visione dei video ha aumentato la nostra partecipazione ai casi che documentano, ci ha rivelato aspetti che non conoscevamo, ha ampliato la percezione della realtà? Secondo me no, e non perché creino l’impressione che la realtà sia una finzione. Al contrario: essi creano l’impressione che la finzione sia una realtà. Ovvero che su un disastro aereo non ci sia nulla da aggiungere rispetto a quanto visto su YouTube o che l’orrendo filmato dell’Isis dica tutto sulla jihad, le turbolenze mediorientali o, peggio ancora, sulla vita e sulla morte di un uomo.

Ci accontentiamo delle immagini e anzi pesiamo di aver fatto un passo in avanti nell’esperienza. In realtà, ci siamo arresi all’arma della superficialità.

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