Le parole vietate

Dall’immenso sciocchezzaio che ci circonda (al quale mi pregio ogni giorno di contribuire) ho pescato ieri due bischerate di notevole cabotaggio. Una di Silvio Berlusconi - nel genere, non proprio un debuttante - che ha rimbeccato le figlie di Enzo Tortora (al quale si era paragonato come «vittima» della Giustizia) dicendo loro «avete perso un’occasione per stare zitte», e un’altra della pm Ilda Boccassini secondo la quale Ruby, nelle sue peripezie, avrebbe dimostrato «una furbizia orientale, tipica delle sue origini».

Non c’è bisogno di troppe parole per confutare affermazioni tanto svagate (chi, se non le figlie, hanno diritto di parlare del padre? Come si giustifica, se non con un assurdo pregiudizio razziale, la presunta "innata" furbizia di Ruby?) e nel proclamare un pareggio di scempiaggini tra due storici avversari vorrei qui passare oltre e trattare un tema più ampio. Che sarebbe: che cosa fare per combattere il costante, irresponsabile, endemico, pernicioso e quotidiano abuso della lingua italiana? Un abuso fatto non tanto di strafalcioni (che pure non mancano) quanto di concetti divelti dalla logica, di parole piegate a interessi particolari («libertà», «solidarietà», «uguaglianza») e di lemmi ricchi di succhi nobili («impegno», «valori», «lavoro») impiegati per insaporire - meglio: per edulcorare - l’insipido risciacquo del nostro fraseggio giornaliero.

Una proposta, inapplicabile ma irresistibile: vietare una parola alla settimana. Per sette giorni tutti - non solo i politici, i giornalisti e gli affabulatori di professione - si impegneranno a non usare la parola prescelta e a ragionare, per esempio, di «libertà», evitando la paroletta lisa, riscoprendone così il significato grazie al consapevole ricorso a un sinonimo meno usurato. Resta da scegliere chi deciderà, di volta in volta, la parola da vietare. Se permettete farò io e sarà una scelta inappellabile. Dopo tutto, tra le parole, «democrazia» non è la meno logorata.

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