Le ultime righe

Ora che tutta la stampa, senza eccezioni, si dedica a seguire l’alieno appena sbarcato sulla Terra (il quale, stravagante, ha voluto assumere le sembianze di un comico genovese) non è rimasto nessuno se non il sottoscritto (appunto: nessuno) a registrare che, forse, dopo l’inverno, Sanremo, le elezioni e una tempesta di lauree fasulle, forse - e dico forse - siamo autorizzati a sperare nella primavera.

Capisco che il passare delle stagioni non fa più notizia - avviene con straordinaria regolarità da tempo immemorabile, senza mai una crisi, un voto di fiducia, una chiamata al Colle, un richiamo dell’Europa e uno scossone dei mercati - ma, fateci caso, ancora rappresenta la più potente speranza di cambiamento, il più efficace sprone contro l’afflizione umana: cambiare si può, ci dice e, anzi, prima o poi succede.

Non so neppure in che cosa colgo questa promessa, se non nell’oggettività del calendario. Forse nel dono del cielo terso e nella temperatura che, sfogato il recente eccesso di neve, ha preso a salire con la prudenza della Borsa di Atene, o forse in una luce un poco più cristallina del solito. Personalmente, non avrei nessunissima ragione per annunciare la rinascita. Ma anche se misteriosa la sensazione c’è, ed è innegabile.

Così come c’era, altrettanto inspiegabile e potente, nelle righe con cui Kafka volle chiudere il terribile incubo de "La metamorfosi":

«Mentre così chiacchieravano, i coniugi Samsa, guardando la loro figliola farsi sempre più vivace, si avvidero quasi contemporaneamente come, nonostante tutto il soffrire che le aveva smunto le guance, negli ultimi tempi essa si fosse trasformata in una bella e florida giovinetta. Si fecero più zitti, e quasi inconsciamente, intendendosi con gli sguardi, convennero che presto sarebbe giunto il momento di trovarle un buon marito. E, quasi a confermare quei nuovi sogni e buoni propositi, al termine del percorso la ragazza si alzò per prima, stirando le giovani membra».

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