L’erba non voglio

C’è chi la crisi la «vive sulla pelle» e chi la «legge nei numeri», chi la «respira nell’aria» e chi la scorge, sconsolato, nel frigorifero vuoto. Io ho il dubbio privilegio di vederla crescere.

Ogni giorno, nel tragitto che mi porta al luogo dove scrivo queste note e attendo ad altre faccende legate alla pubblicazione del giornale che le contiene, costeggio un edificio, dotato di ampio parcheggio, che mostra tutti i segni dell’abbandono: vetrate intristite dalla polvere, bande di cartacce che, al minimo cenno di vento, scorrazzano nel cortile, lingue nere lasciate su un muro da un falò acceso, in altra stagione, da un qualche clandestino. Ma un segno più degli altri, così evidente nella stagione estiva, tradisce lo spettrale declino di tutto il complesso: quello delle erbacce.

Crescono ovunque: lungo il muro, tra le mattonelle di cemento che compongono il parcheggio, perfino davanti all’ingresso principale. Ogni giorno mi sembrano più alte, un esercito disordinato e straccione che avanza in ordine sparso. Fiori spinosi e ostili nella forma e nel colore oscillano come teste su corpi filiformi, ramificazioni lanose, simili alle zampe di grossi insetti, si allungano da ogni parte a reclamare sempre più spazio.

Un tempo, neppure molti mesi fa, l’edificio ospitava una concessionaria di auto. Dietro le grandi vetrate vedevo carrozzerie lucide e giovani venditori in giacca e cravatta. Nel parcheggio si allineavano altre vetture ancora, quelle che i cartelli piazzati sul parabrezza definivano “occasioni”. Sull’edificio sventolavano le bandiere con i marchi automobilistici rappresentati dalla concessionaria. All’uscita, c’era sempre un’auto con la targa di prova in attesa di immettersi sulla strada.

Oggi solo erbacce: immobili eppure invadenti, ogni giorno più arroganti nella loro bruttezza aliena.

Non avevo particolare simpatia per quei venditori che mi parevano freddi come squali nell’acquario. Ma oggi li ripenso con nostalgia e, cosa che non avrei mai creduto, sogno il trionfo del diserbante.

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