Non vorrei mai, per il gusto di scrivere due noterelle (si spera) simpatiche, mettere in crisi settori industriali e far tremare catene di grande distribuzione né tantomeno minacciare l’esistenza dei piccoli esercizi alimentari, quelli che ancora resistono.
Per questi ultimi, tra l’altro, provo un affetto profondo. Mi ricordo, da ragazzino in vacanza al mare, certe scarpinate nell’entroterra ligure: arrivato in cima a un sentiero tortuoso trovavo, come un avamposto di civiltà tra macchie di ginestre e ciuffi spontanei di rosmarino, una casupola mezza diroccata che pure, sulla facciata, esibiva il cartello d’ordinanza: «Olio di oliva, burro naturale, uova, carni macellate». Chi andasse a rifornirsi fin lassù, in alto e lontano dalle spiagge affollate come per una forma di superba timidezza, non mi era chiaro. La prima volta che vidi lo sperduto negozietto mi sembrò che il mio sforzo per arrivare lassù avesse perduto molto della sua epica: tanta fatica per scoprire come, in cima al mio Everest personale, qualcuno vendesse uova e ossobuco. Poi cambiai idea - mi capita, qualche volta: non sempre - e gli affibbiai l’importante ruolo di stazione di rifornimento lungo una pista che immaginavo lunghissima e avventurosa: una specie di Tombstone al pesto.
Tutto ciò, l’avrete capito, per commentare a modo mio la notizia della “condanna” da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità delle carni rosse e lavorate in quanto “cancerogene”. Condanna non assoluta ma da sottoporre a buonsenso, come molti giustamente hanno fatto notare, eppure svolta importante verso un futuro dell’umanità meno carnivoro e meno dipendente dall’industria della macellazione. Un processo prevedibilmente lento e meditato ma che oggettivamente appare inevitabile e in fondo anche giusto. Mi chiedo solo che fine farà quell’ermo negozietto: quasi certamente è chiuso da tempo, adesso rischia grosso perfino la memoria che di esso conservavo. E anche questo mi dispiace.
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