L'etichetta

L'etichetta

Tutti parlano di globalizzazione. Alcuni la sperimentano e ne parlano. Altri non la sperimentano e ne parlano lo stesso. Altri ancora ne parlano in termini vaghi, senza notare ciò che si presta meglio all’osservazione. Per me, segno concreto del progressivo incedere della globalizzazione sono le etichette applicate sul rovescio degli indumenti.

Un tempo erano umili quadratini di tessuto e recavano scritte tenere nella loro timidezza: "Pura lana vergine". C’era anche il simbolo della "lana vergine": un gomitolo. Oppure dicevano: "Cotone 100%", o anche "Cotone 80%, poliestere 20%". Qualcuna azzardava: "Made in Italy" e proponeva anche il simbolo di un ferro da stiro. In ogni caso, poca importanza aveva ciò che le etichette riportavano perché nel giro di due lavaggi le scritte sparivano e il modesto rettangolino di tessuto si ritirava, vergognoso più che mai, fin quasi a sparire.

La globalizzazione ha trasformato le etichette ingigantendole: oggi svolazzano come grossi nastri e sono diventate multiple, cucite una sull’altra perché hanno tante cose da dire e lo spazio non basta. Che cosa abbiano da dire, però, si capisce poco: riportano svariati linguaggi, vero, ma tra i più oscuri del pianeta. Ogni tanto però lasciano intendere qualcosa di bizzarro: «Questo indumento è assemblato in Cina con materiali italiani e supervisione finale effettuata in Italia». Anche l’etichetta globale, dunque, si vergogna di se stessa ma, ipertrofica e verbosa, non ha modo di ritirarsi, dopo qualche lavaggio, al riparo di una pietosa cucitura.

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