Quale potrebbe essere, secondo voi, l’abitudine digitale più difficile da estirpare? In altre parole: se pensate ai siti, alle app e ai social che usate ogni giorno, a quale sarebbe davvero arduo rinunciare? WhatsApp? Instagram? Le e-mail? Il sito dei gatti che rimbalzano (esiste: è cat-bounce.com)? La risposta sarà certamente soggettiva ma, da un punto di vista statistico, gli esperti non hanno dubbi: è Facebook l’abitudine più difficile da estinguere.
La differenza la fanno i numeri (Facebook risulta di gran lunga la piattaforma più diffusa) e, osiamo pensare, la flessibilità che la contraddistingue: le “bacheche” sono una via di mezzo tra dazibao politici, ricettari regionali, cartelle di sedute psicanalitiche sfuggite alla privacy, previsioni meteo, e più in generale, come ringhiava Tom Waits in una vecchia canzone, turbolenti«emotional weather report», bollettini del tempo emozionali. Di tutto e di più, dunque: la premessa ideale perché ognuno si ritagli su misura il proprio spazio di sfogo.
Per scoprire che cosa accade quando questa abitudine si interrompe, le Università di Stanford e di New York hanno proposto a quasi tremila utenti di Facebook di astenersi dal frequentare la piattaforma per un mese, offrendo in cambio del denaro. Si è scoperto che gli utenti hanno valutato questo sforzo, in media, 100 dollari. Un anno di “astinenza”, ne consegue, potrebbe “valere” circa mille euro.
Ma il denaro non è tutto, come si sa, e quel che conta è la vita post-Facebook. Ebbene, che cosa hanno scoperto i ricercatori? Che gli ex utenti recuperano, in media, un’ora al giorno del loro tempo e che, sempre in media, decidono di investirla nella compagnia di amici e familiari e non in altri passatempi digitali. Quasi tutti, poi, hanno dichiarato di aver avvertito un miglioramento nella loro vita quotidiana. Nulla di sconvolgente, però: un miglioramento percepibile, ma modesto. La conseguenza più evidente,secondo molti, è stata «la mancanza di notizie, la carenza di informazione».
Ed è probabilmente questo il dato più significativo, che forse i più già intuivano ma avevano qualche difficoltà ad ammettere: quella sua caratteristica che abbiamo definito “elasticità”, e che forse potremmo ribattezzare “comodità”, fa di Facebook un contenitore per tutto, compresa l’informazione, la quale non è più, così sembra, un aggiornamento sulle ultime notizie, un tenere il passo con la Storia e la vita sociale, ma una sorta di immersione in quanto è soggettivamente significativo per l’individuo, senza rilevanti separazioni logiche e/o graduatorie d’importanza. Informazione può essere (o no) la disdetta dell’accordo sulle armi nucleari e anche (o no) la ricetta del pan pepato. Qualunque cosa sia, se non arriva da Facebook non viene rimpiazzata con altre fonti.
C’è da aggiungere che, nel dichiararsi meno informati, gli utenti in astinenza si sono scoperti anche meno “polarizzati”, ovvero meno spinti verso le opinioni più estreme, quelle che inducono alla contumelia e allo scontro.Ed è forse questa la conclusione più agghiacciante: l’informazione non è oggi separabile dalla faziosità e, anzi, tra le due cose c’è un reciproco alimentarsi e confermarsi. L’informazione ha infine compiuto una svolta a 180 gradi: più sappiamo, meno ragioniamo. Orwell dovrebbe proprio aggiornare gli slogan di “1984”: “Knowledge is ignorance” e l’ignoranza, come lui aveva già capito, è forza.
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