L'Italia che funziona

L'Italia che funziona

Andrà a finire che i poveri cronisti odieranno questo tipo di servizi più di quelli tradizionalmente considerati rognosi. «Mandatemi in guerra» supplicheranno: «Speditemi in Siberia, oppure nel Sahara. Un bel servizio sui serpenti velenosi dell’Amazzonia? Che ne dite?» No. Di tanto in tanto, ai cronisti tocca il servizio più pericoloso di tutti: quello dedicato al reperimento della "buona notizia". «I giornali sono pieni di nefandezze» protesta il pubblico: «Guerre, stragi, povertà, crisi sociali, dischi di Giusy Ferreri. Perché non mettete mai in rilievo qualche avvenimento positivo?» Ecco allora scattare la ricerca della "buona notizia" o, come esige il cliché più diffuso, dell’«Italia che funziona».
Uno di questi servizi campeggiava ieri sulla prima pagina del «Corriere della Sera», ma presto toccherà ad altre testate calarsi nel gorgo. Se avrete la pazienza di seguire codesti reportage, noterete quanto sono disagevoli. Per raccontare la presunta «Italia che funziona» i cronisti si sottopongono a imprese sovrumane. Altrimenti, come intervistare il pastorello che tosa le pecore a seimila metri sul livello del mare, oppure l’ittiologo che allatta squali nelle profondità di Scilla e Cariddi? Come raggiungere, se non rischiando la morte a ogni passo, quel piccolo opificio che ancora produce candele «come si faceva una volta», opportunamente collocato sul ciglio di un burrone dolomitico? O quella deliziosa bottega di fabbro, simpaticamente attrezzata nelle viscere incandescenti di Vulcano? Date retta a me: quest’Italia che funziona prima o poi combinerà un casino.

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