Lo sport ostinato

Mi piace abbastanza il judo. Anzi: perché “abbastanza”? Diciamo pure che mi piace. Non che ci capisca qualcosa, questo no: mi piace e basta. Fino a qualche giorno fa neppure lontanamente pensavo al judo, ma anche il pensiero del kayak era estraneo alla mia mente e così quello del fioretto a squadre. Adesso tutte queste cose si presentano in parata e, come è inevitabile, il mio cervello prende a formare una graduatoria di gradimento.

Non durerà molto: presto incomincerà l’atletica e le discipline da tatami piuttosto che da vasca, da bersaglio piuttosto che da fiume vedranno transitare il loro momento di gloria. Così va il mondo, anche ai Giochi. Per il momento, però, il riflettore della fama è giustamente puntato su questi sport.

Tornando a bomba: mi piace il judo. Non so perché. Non è una questione estetica (per questo bisogna ammirare la leggiadria intrinseca della ginnastica o la fluida potenza del nuoto), quanto una vicinanza umana. La galleria delle facce formata dagli atleti del tatami costituisce un campionario di umanità “normale”, dove con questa definizione si intende, sotto sotto, qualcosa di umile e non pretenzioso. Soprattutto, negli sforzi dei giovani che si afferrano per il bavero, spingono con l’anca, puntellano con i calcagni, spazzano coi polpacci, parano coi gomiti e schiacciano con le ginocchia, mi sembra di intuire un’ostinazione sorda e, in un modo affatto modesto, valorosa.

Mi piace pensare che il judo porti alla luce le qualità grezze ma preziosissime di testoni che non si arrendono mai, gente che artiglia l’esistenza cercando di domarla, che usa il cervello per anticipare le mosse della sorte e a sua volta, con un guizzo, finisce per sorprenderla. Mentre sullo sfondo si preparano le gazzelle dell’atletica, io ringrazio gli ostinati del judo, aggrappati al bavero della vita con una forza che nel nome stesso della disciplina, in giapponese, viene chiamata “flessibilità” o “cedevolezza”. L’unica forza che, per fortuna, molti di noi praticano. Di solito, con successo.

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